Il cinema d’autore? Non deve annoiare – Intervista a Celine Sciamma


celine sciammaMaschio o Femmina. Due generi diversi, separati da un pezzettino di cromosoma e da un mondo di stereotipi, di ruoli e di regole. Eppure per i bambini tutto è più semplice: basta un taglio di capelli, una vocale mal detta, il colore di una giacca e il gioco può avere inizio. Succede così per la giovane protagonista di Tomboy (maschiaccio, in inglese) di Céline Sciamma, interpretata da Zoé Héran: dopo l’ennesimo trasloco per il lavoro di papà una sua coetanea la scambia per un ragazzino e lei per un’estate intera si confronta con questa nuova identità, aiutata dalla sorellina divertita dal loro nuovo segreto. La macchina da presa segue leggera le avventure della protagonista, indugia sul suo corpo acerbo e ancora ambiguo, assiste come uno spettatore allo sviluppo delle dinamiche dentro e fuori la famiglia.

Il film, che tratta con delicatezza e profondità un tema importante come quello dell’omosessualità, è diventato un caso in Francia con 220.000 spettatori. La regista, appena trentenne, lo ha presentato a Genova alla Sala Sivori.

Da dove è nata l’idea del film?

Mi interessano le questioni sull’identità dell’individuo, sono le storie che mi piace raccontare anche perché trovo che siano molto cinematografiche. Trattando di bugie e doppie vite, se vogliamo anche Avatar è un film sull’identità. Quello che cerco è l’equilibrio fra un soggetto sottile che abbia un contenuto profondo e quegli elementi che funzionano funzionano: il thrilling e la suspense. Il cinema d’autore non deve annoiare.

Come ha lavorato con la protagonista, con la sorella e con i loro amichetti? E come ha girato le scene di gruppo?

Innanzitutto è stato molto diverso lavorare con una bambina di 10 o di 5 anni. E quando sono entrambe nell’inquadratura sul set c’era da impazzire. Il film non si basa sull’improvvisazione ma segue molto la sceneggiatura, che è stata scritta in modo che le due bambine abbiamo sempre qualcosa da fare. All’inizio di ogni scena le lasciavo libere di giocare, per poi arrivare al momento in cui potessero interpretare con naturalezza lo script. Ho cercato di rendere tutto divertente e per questo ho usato delle strategie: ad esempio quando loro dovevano ballare mi mettevo a ballare anche io, quando dovevano cantare, cantavo anche io. Invece quando i bambini erano tanti e c’era bisogno di diversi movimenti di macchina, ho usato due cineprese: lasciavo andare a ruota libera il gruppo e mi focalizzavo su chi doveva recitare.

Come ha spiegato a Zoé Héran il suo personaggio?

Quando l’ho incontrata durante il casting, lei conosceva la storia e sembrava già un maschiaccio. Ho pensato quindi che provasse una certa empatia con la parte e che potesse comprendere quello che stava passando il personaggio. Per lavorare con i bambini non bisogna mai mentire e quindi io ho parlato apertamente con tutti loro dei sentimenti e dell’amore. Mi sentivo responsabile nei loro confronti. È stato interessante vedere come i giovanissimi non chiedono mai il perché delle azioni dei personaggi: loro credono a quello che vedono. E così quando la piccolina ha visto la sorella con i capelli corti l’ha subito chiamata “Monsieur”.

Anche se l’interpretazione del film sembra essere volutamente libera, è chiaro che lei abbia voluto affrontare il tema dell’omosessualità.

Tomboy contiene la questione della transessualità e in questo senso è anche un film politico, ma è solo una delle tante letture che credo si possano fare. Prima di tutto è una storia che riguarda tutte le persone, perché porta alla luce una serie di domande legate all’identità attraverso cui passano tutti i bambini.

Com’è andata la produzione del film? C’è una scena a cui è rimasta particolarmente legata?

Ho scritto il film in tre settimane e l’ho girato in 20 giorni. La mia scena preferita è quella in cui le due sorelle sono sul letto e giocano a indovina chi. È un piano sequenza e quindi qui non si possono raccontare bugie con l’aiuto del montaggio. Trovo che le due attrici qui recitino davvero bene ed esprimano una grande complicità, ma ci sono volute 19 riprese per arrivare a questo. Per questo è il peggiore e migliore ricordo che ho.

(di Francesca Felletti)

Postato in Interviste, Numero 95, Registi.

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