Tutti cercano la propria Terraferma, l’approdo sicuro alla fine di un viaggio intrapreso per necessità. Giulietta (Donatella Finocchiaro), giovane madre vedova, vuole lasciare l’isola dove vive per dare un futuro a se stessa e al figlio Filippo (Filippo Puccillo). Che non sa ancora, come tutti gli adolescenti, quale sia la sua Terraferma, confuso da un nonno di verghiana memoria (Mimmo Cuticchio) che lo vorrebbe pescatore a vita e uno zio traffichino (Beppe Fiorello), che tenta di rivoluzionare le tradizioni locali puntando sul turismo. Ha invece le idee chiare Sara (Timnit T.), extracomunitaria che il nonno salva da un naufragio e nasconde in casa di Giulietta: lei vuole rimanere in Italia, sfuggire ai controlli della polizia e ricongiungersi al marito che vive a Torino. L’iniziale istinto di solidarietà di Giulietta presto si trasforma in fastidio nei confronti della donna, che potrebbe diventare un ostacolo alla realizzazione del suo nuovo progetto di vita. Intanto sull’isola si susseguono gli sbarchi di migranti e, in un clima di grande tensione, la Finanza aumenta i controlli perché tutti gli abitanti rispettino le leggi sull’immigrazione clandestina.
Il cinema di poesia civile di Emanuele Crialese ci immerge ancora una volta nel blu ipnotico di quel mare che già tanta parte aveva in Respiro (2002) e Nuovomondo (2006). Questa volta il realismo magico che da sempre contraddistingue la cifra stilistica del regista è al servizio di una fiaba dei nostri giorni, triste e tragica come le fiabe sanno essere. Le immagini, forti e simboliche (una tra tutte: il gruppo di migranti naufraghi che nel buio circonda la barca di Filippo come i dannati di una bolgia dantesca), a tratti sembrano cristallizzarsi nell’estetismo. E la sceneggiatura, che così nettamente distingue i “buoni” dai “cattivi”, risulta troppo schematica. Tuttavia Terraferma raggiunge lo scopo: scuote lo spettatore dall’indifferenza, lo costringe ad interrogarsi sull’egoismo contemporaneo, che spesso guarda con timore e sospetto alla tragedia vissuta dai migranti.
“Secondo me oggi si difetta in sensibilità”, ha detto Crialese durante la conferenza stampa del film, in concorso a Venezia.
Pensa che l’Italia non abbia gestito efficacemente le ondate migratorie?
Lo Stato ha risposto agli sbarchi in modo inadeguato. Anzi, è andato contro le più elementari regole di civiltà. Molti sembrano aver dimenticato il nostro passato di migranti e quanto sia importante la contaminazione col nuovo, specialmente in un paese vecchio come il nostro. Ma non è un film “a tesi”, né voglio giudicare qualcuno, spero solo di suscitare un dibattito nel pubblico.
Per la sceneggiatura vi siete ispirati a fatti di cronaca?
Sì, ma cronaca rielaborata, trasformata in un racconto che non rispondesse a canoni da trasmissione televisiva. E poi è stata fondamentale Timnit, l’attrice che interpreta Sara nel film.
Perché?
Nell’agosto del 2009 mi colpì la notizia di una barca rimasta alla deriva per tre settimane con 79 persone a bordo. Ne morirono 76, uno dei tre sopravvissuti era Timnit. Quando vidi il suo volto in foto ne rimasi ipnotizzato: aveva vissuto l’inferno ma sorrideva come se fosse arrivata in paradiso. Le ho chiesto di partecipare alla stesura: l’ha corretta dove pensava che fosse necessario aggiungere o tagliare qualcosa.
Perché non dà un nome all’isola? Non si tratta di Lampedusa?
Non volevo che fosse identificata con un luogo in particolare: una storia come questa può accadere in qualsiasi parte del mondo.
(di Maria Francesca Genovese)