Nell’arco di soli cinque lungometraggi, il cinema di Paolo Sorrentino si è imposto con grande determinazione al di fuori degli ambiti soffocanti del “nuovo cinema italiano”. Sorrentino oggi sembra l’unico regista interessato a raccogliere la sfida di un cinema in grado di dialogare con la produzione del cinema d’autore internazionale.
This Must Be the Place scavalca infatti d’un balzo tutte le preoccupazioni localistiche nostrane per gettarsi a capofitto nell’universo della coproduzione mondiale dove dominano i nomi di cineasti come Walter Salles, Fernando Mereilles, Neil Jordan, Tom Tykwer e altri. Un cinema transnazionale, dichiaratamente “globale”.
Inevitabile quindi che This Must Be the Place manifesti una metamorfosi forte nella poetica del regista napoletano. Se infatti la linea di continuità tematica con i suoi “uomini in più” è confermata anche dall’ultimo film, cambia completamente il senso dell’isolamento nel quale sono calati loro malgrado e, soprattutto, il loro rapporto nei confronti del mondo circostante, elemento determinante nell’equilibrio poetico del regista.
Sin dal suo primo film, Sorrentino si è premurato di creare un corrispettivo oggettivo ambientale al male di vivere dei suoi personaggi. Con This Must Be the Place, Sorrentino introduce l’elemento dell’erranza. Il rocker interpretato da Sean Penn scivola sulle superfici del mondo esterno con la leggerezza di un cursore da pc. Segno tra i segni, Cheyenne, come le stelle di Andy Warhol, resta sempre ben visibile sulla superficie.
Questa mutazione di prospettiva può essere compresa in primo luogo con la scomparsa del paesaggio della provincia italiana o, come nel caso de Il divo, di una scenografia o di fatti nei quali contestualizzare i corpi; dall’altro con la necessità di cambiare segno al radicale individualismo dei personaggi sorrentiniani, offrendoli a una più comprensibile anomia (elemento che su scala globale è più comprensibile).
Se infatti L’amico di famiglia spingeva il processo della singolarità della mostruosità sino alle sue estreme conseguenze, trasformando l’orizzonte dell’Agro pontino in una sorta di incubo metafisico nel quale era comunque ben visibile sia la lezione grottesca felliniana che la vertigine architetturale di Antonioni e il grottesco ferreriano, This Must Be the Place, dovendo mettere in scena il paesaggio statunitense, abbraccia con grande convinzione una sorta di esperanto della memoria collettiva delle immagini provocando paradossalmente uno smarrimento nello smarrimento. Come dire che il mondo nel quale Cheyenne vaga alla ricerca dell’uomo che ha umiliato il padre non è il mondo, ma solo l’immagine, vaga, di un mondo intravisto altrove. Un vuoto pieno di vuoto.
Questa trasformazione della poetica sorrentiniana, che s’ancorava sempre allo specifico dei corpi – mentre ora Penn è colto soprattutto come immagine traslucida (del personaggio che interpreta e di conseguenza come riflesso del suo stesso lavoro di attore) – si può leggere anche come un desiderio di perdita di peso specifico per guadagnare una leggerezza in grado di essere accettata come segno di un discorso piuttosto che come discorso in quanto tale. Se così fosse, si tratterebbe di un autentico cambio di pelle che permetterebbe di ragionare su come un certo cinema italiano aspiri a rappresentarsi sul mercato cinematografico internazionale.
This Must Be the Place, ed è un aspetto davvero interessante, si oppone con grande determinazione alla convinzione che ciò che piace al pubblico internazionale delle storie italiane sia proprio il carattere locale. Da Nanni Moretti agli alfieri della neocommedia, il valore che si tenta di difendere sempre a tutti i costi è proprio l’italianità. Sorrentino, invece, scommette in una direzione completamente diversa e contemporaneamente lancia anche una sfida al nostro cinema: realizzare un cinema che non sia più italiano ma internazionale, perdere il proprio specifico nazionale per realizzare un prodotto globale. Non avendo più il nostro cinema un serbatoio di generi cui affidare questa impresa o autori in grado di diventare aggettivi, sconcerta la radicalità di Sorrentino attraverso la quale si cimenta in questa impresa.
Con This Must Be the Place è come se Paolo Sorrentino tentasse consapevolmente di mettere a punto un suo specifico marchio, convogliandolo in quella categoria pericolosissima che è il cinema d’autore da festival. Se infatti i valori produttivi del film sono di eccellenza assoluta, ponendo quindi in questo modo una precisa richiesta di responsabilizzazione al cinema italiano che volesse seguire Sorrentino su questa strada, dall’altro resta da verificare cosa resterà del cinema del regista una volta che proseguirà il cammino lungo questa strada.
Sarebbe davvero un’amara ironia della sorte se il regista che aveva preso in contropiede critica e pubblico con L’uomo in più fosse alla lunga fagocitato dalla sua stessa macchina per diventare l’ennesimo uomo in meno del cinema italiano. Per il momento, però, i giochi sono ancora aperti e tutti da giocare.
(di Giona A. Nazzaro)