Terrence Malick nasce a Waco (Texas) il 30 novembre 1943, da madre di origine irlandese e da padre geologo libanese. Maggiore di tre figli, studia alla Episcopalian School di Austin, sino a che la sua famiglia si trasferisce in Oklahoma. Durante l’estate svolge diversi lavori: pozzi petroliferi, ferrovia, raccolta del grano, ecc.
Nel 1961, s’iscrive a Harvard dove si laurea nel 1966, per frequentare poi un dottorato al Magdalen College di Oxford. In Inghilterra, inizia anche la sua carriera giornalistica per “Newsweek”: carriera che prosegue anche dopo il ritorno in patria per “Life” e per “The New Yorker”. Nel 1968, inizia a insegnare filosofia al Massachussetts Institut of Technology. Leggenda vuole che nello stesso anno (quello della morte per suicidio di suo fratello Larry) Malick abbia incontrato in Germania Martin Heidegger, di cui tradurrrà in inglese Won Wesen des Grundes (Dell’essenza del fondamento). Nel 1969, abbandona l’insegnamento e s’iscrive ai corsi dell’American Film Institut, dove realizza due cortometraggi a 8mm e il suo primo cortometraggio reso pubblico (Lanton Mills), che interpreta insieme con Harry Dean Stanton e Warren Oates. Nel 1978 si trasferisce a vivere in Francia.
Filmografia
Regie – 1969: Lanton Mills (cortometraggio) – 1973: La rabbia giovane (Badlands) – 1978: I giorni del cielo (Days of Heaven) – 1998: La sottile linea rossa (The Thin Red Line) – 2006: The New Word –Il nuovo mondo (The New World) – 2011: The Tree of Life (idem).
Sceneggiature per altri – 1971: Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo (Dirty Harry) di Don Siegel (non accreditato) – Yellow 33 (Drive, He Said) di J. Nicholson – 1972: Deadhead Miles (idem) di V. Zimmerman – Per una manciata di soldi (Pocket Money) di S. Rosenberg – 1974: The Gravy Train (idem) di J. Starret – 2002: Il bacio dell’orso (Bear’s Kiss) di S. Bodrov jr. (non accreditato) – 2008: Che: Guerriglia (Che: Part Two) di S. Soderbergh.
Produzioni per altri – 1999: Endurance di L. Woodhead e B. Greenspan – 2000: The Endurance: Shackleton’s Legendary Antarctic Expedition di G. Butler (documentario) – La locanda della felicità (Happy Times) di Z. Yimou – 2004: The Beautiful Country di H. P. Moland – Undertow di D. G. Green – 2006: Amazing Grace di M. Apted – 2007: The Unforeseen di L. Dunn (documentario).
TERRENCE MALICK, QUANDO LA POESIA SOFFOCA IL CINEMA
Che cos’è il cinema? L’interrogativo di “baziniana” memoria (da André Bazin, padre putativo della Nouvelle Vague) si presenta ormai a ogni uscita di un nuovo film di Terrence Malick, che divide puntualmente il pubblico e la critica in due fazioni contrapposte: una che grida al capolavoro e l’altra che s’indigna e fischia.
Perché? Nel caso di Malick il contrasto non sembra nascere dall’annosa contrapposizione tra forma e contenuto. Qui, il problema in gioco è il cinema stesso: il suo senso, la sua progettualità, la sua funzione artistica. La frattura passa attraverso i “cinéphiles” più accaniti, come tra coloro che al cinema ci vanno solo saltuariamente, per diletto o per conoscenza.
Certo, in questa estremizzazione dei giudizi gioca un ruolo anche l’involucro “mitico” del quale Malick ama circondarsi. Ma questo sicuramente non basta. Ciò di cui i film di Malick fanno discutere riguarda, appunto, la risposta che si dà alla domanda: “Che cos’è il cinema?”. E questo anche al di là della volontà del suo stesso autore, il quale non dimostra di amare in modo particolare l’interrogarsi sugli statuti linguistici del mezzo espressivo che sta utilizzando, non è tendenzialmente un cinéphile («Non ci sono soltanto i film nella mia vita», ha affermato in una delle sue rare dichiarazioni) ed enuncia, con le sue opere, di preferire le affermazioni alle domande, le certezze concettuali ai dubbi quotidiani dell’esistenza.
Nessuno, credo, mette in discussione la competenza cinematografica del regista di The Tree of Life, anche se molti trovano alquanto letterario il suo uso della voce fuori campo. Ciò che divide non è mai la sua professionalità, ma – vale la pena ribadirlo – la stessa idea di cinema che sottende i suoi film. Un cinema come arte figurativa ostentatamente contrapposta a un cinema come narrazione. Un cinema che intende rappresentare direttamente un’idea del mondo, piuttosto che lasciare che questa si definisca attraverso la forma del racconto e i comportamenti dei personaggi che la vivono. Un cinema estetizzante e metaforico, dichiaratamente “poetico” che poco tiene conto delle strutture narrative e continuamente esce dalla affabulazione e dall’azione dei personaggi, per indugiare su particolari figurativi, intesi a universalizzare ciò che accade sullo schermo: un tramonto o un’aurora in controluce, una goccia di rugiada su una foglia che il vento fa fremere, una cavalletta o una farfalla pronta a spiccare il volo; ma anche un improvviso campo lungo o un imprevisto scarto temporale del racconto.
Basta vedere l’opera omnia di Malick (in fin dei conti si fa presto: cinque lungometraggi in quarant’anni, a conforto di coloro che credono che l’arte sia ispirazione, più che fatica quotidiana) per rendersi conto che il suo cinema si muove in direzione opposta rispetto a quella indicata dal grande modello del cinema classico e che i suoi riferimenti sono caso mai il documentarismo calligrafico degli anni a cavallo tra muto e sonoro, e, al limite, il magistero di Stanley Kubrick, di cui i suoi film portano alle estreme conseguenze l’ambizione di trascendere il cinema come narrazione per giungere all’assoluto di un’Arte che guarda innanzitutto a se stessa come criterio e canone del Mondo.
E’ su questo terreno critico, forse filosofico (la filosofia era stata il primo grande amore di Malick) prima ancora che analitico, che i giudizi sul cinema di Malick inesorabilmente si divaricano. Da una parte coloro per cui il cinema ha come proprio oggetto la complessità vivente degli uomini e del mondo e per i quali lo scorrere dei fotogrammi è innanzitutto in funzione del racconto; e, dall’altra, coloro che al cinema chiedono soprattutto la spiegazione diretta della vita e delle cose, per cui il narrare e gli stessi personaggi tendono a dissolversi dentro all’involucro figurativo e a un divenire delle immagini verso la rappresentazione della soggettività autoriale.
Non è certo un caso che la carriera professionale di Malick abbia avuto inizio (La rabbia giovane) con un parricidio e con una fuga. Come molti artisti che erano giovani nei primi anni Settanta del Novecento, Malick non fa mistero di volersi liberare del passato e di fuggire lontano da Hollywood, dal modello consolidato di classicità. La rabbia giovane è un film che nasce in forma quasi amatoriale e che guarda direttamente ai modelli recitativi dei primi anni Cinquanta (Martin Sheen che imita James Dean), ma è anche un’opera nella quale la riflessione sul linguaggio e le strutture narrative del cinema (riflessione particolarmente cara a molti registi di quegli anni) passa decisamente in secondo piano rispetto al prevalere di un’idea essenzialmente calligrafica e aprioristicamente assunta della vita e del mondo.
In La rabbia giovane, ma ancor più nei suoi film seguenti, Malick tende già a quella contrapposizione tra vita e rappresentazione, che lo porterà a dare sempre meno importanza ai personaggi, dai quali pur muove sempre il suo discorso, rispetto all’apparato figurativo nel quale vengono collocati. Così accade per i due amanti / fratelli di I giorni del cielo (ancora una coppia in fuga) raccontati, con l’ausilio della fotografia estetizzante di Nestor Almendros e Haskell Wexler, sullo sfondo della meccanizzazione dei raccolti di grano, tra limpidi corso d’acqua e una visione pànica della Natura, minacciata infine da una (metaforica?) invasione delle cavallette. Ma qualcosa di molto simile avviene anche ai soldati di La sottile linea rossa che combattono, a Guadalcanal, una guerra in cui quello che conta non è tanto il loro comportamento di fronte ai temi della vita e della morte o la loro reazione al divenire stesso della Storia, quanto le sensazioni panteiste che nascono da immagini che insistono su una natura sconvolta dai bombardamenti e mutilata dalle raffiche di mitraglia. E puntualmente questa idea di un cinema, che subordina la concretezza del vivere (i personaggi, le azioni, le relazioni drammatiche) alla generalizzazione concettuale (l’involucro filosofico del dire e la funzione trascendentale ostentamente assegnata all’arte), si ripresenta – sempre più esibita – anche nella mitica storia di Pocahontas e dell’arrivo dei coloni inglesi nella Virginia del primo Seicento (The New World), come nell’intima rappresentazione di un doloroso sentimento autobiografico (la morte del fratello che sta alla base di The Tree of Life e che sottende l’interessante messa in scena di un interno famigliare), il quale, però, invece di essere scavato nella sua essenza drammaturgica, viene fatto esplodere nella cosmica genericità di un apologo sull’origine e sulla fine del mondo, frantumando la continuità narrativa (da qui, la scusa per gli spettatori bolognesi che per una settimana non si accorsero che il film veniva proiettato a bobine invertite) e ricorrendo al trionfo degli effetti speciali un po’ retrò, supervisionati da quello stesso Douglas Trumbull, che, quando aveva 25 anni, era stato il curatore di quelli dell’ultima scena “onirica” di 2001: Odissea nello spazio.
Questo è il cinema secondo Terrence Malick. E’ un cinema che ha i suoi fans, già in attesa del nuovo film sul grande tema dei sentimenti e dell’amore, annunciato in post-produzione, e ancora senza titolo. Un cinema che piace moltissimo alle giurie dei festival internazionali e alla maggioranza dei giornali che fanno opinione. Ma anche un cinema che tende a intimidire lo spettatore con la sua “verità” ostentatamente già data; un cinema che corre il rischio di annegare nella sua narcisistica “bellezza” ogni tolleranza nei confronti dell’altro da sé. Si capisce allora, forse, perché i film di Malick tanto dividono. Quello che è in gioco è, come si diceva, l’idea stessa di cinema. Narrazione o contemplazione. Azione o sogno. Arte drammaturgica o metafora formale dell’assoluto soggettivo. Rappresentazione verosimile della vita in movimento o astratto specchio di una verità già data. La filmografia di Malick tende evidentemente a privilegiare le seconde parti di questi dilemmi. Ma i suoi fans sono sicuri che, così facendo, non corre anche il rischio di negare proprio la concretezza di quel mondo, la vita di quegli esseri umani, per la cui sorte i suoi film esibiscono comunque tanta emotiva comprensione e tanto rispecchiamento estetico? Magari privando lo spettatore non solo del piacere di conoscere se stesso attraverso la rappresentazione dell’altro da sé, ma anche di quell’aspetto di verità, gioiosamente vitale, che il cinema classico, al quale Malick tanto ostentamente si contrappone, ha sempre portato con sé.
(di Aldo Viganò)
I SUOI FILM NELLA STAMPA INTERNAZIONALE
LA RABBIA GIOVANE
Si tende a credere che, quando si ha sofferto nella vita, ci si comporti come un animale ferito e si mostri le proprie ferite come se ce le si fosse appena fatte. Questo è almeno ciò che accade sovente al cinema. Nella vita, però, la sofferenza delle persone è quasi sempre nascosta, perché solo così si riesce a sopravvivere. (Terrence Malick intervistato da Michel Ciment, Positif n. 170)
Sulla carta è una storia come tante altre già viste al cinema, ma sullo schermo fin dalle prime immagini si avverte subito una schiettezza insolita, una tenerezza controcorrente, la capacità di respirare nei grandi spazi aperti. (…) Questo del dottissimo Malick è ancora un quadro della Vecchia Frontiera, malinconica e fatiscente. (Tullio Kezich, Panorama)
Non concedendo nulla alla moda retrò, Malick realizza un’opera lucida, senza alcun compiacimento rancoroso o lirismo nostalgico. Questo primo film messo in scena da un ex-giornalista e ex-insegnante universitario di 29 anni ha le qualità di uno sguardo sensibile, ma pudico e realista, sull’umanità contemporanea. (Gilles Colpart, La Revue du Cinéma)
I GIORNI DEL CIELO
Nostalgia e umanesimo: Malick mette l’accento sull’introduzione delle macchine – che distruggono l’equilibrio naturale – piuttosto che sui rapporti di classe. Il suo film s’inserisce così nella scia del cinema americano tradizionale, che rimpiange i valori del passato, esalta i grandi spazi e pone l’uomo alle dipendenza di qualche misterioso destino. (Guy Gauthier, La Revue du Cinéma)
Quello che resta nella memoria non sono solo le belle inquadrature, ma un sentimento di “gestalt” di pace e tempo e atmosfera, che caratterizza tutti i grandi film (Vlada Petric, Film Quarterly)
Testimonianza di un talento già sicuro, (…) il film riesce a combinare la sacra ritualità del lavoro campestre con l’intimo disagio di una nevrosi osservata sotto un doppio profilo, individuale e sociale. (Tullio Kezick, Panorama)
LA SOTTILE LINEA ROSSA
Eccessivo e contraddittorio, a volte ripetitivo e sovente scomodo, La sottile linea rossa si allontana il più possibile dall’univoco cinema spettacolare hollywoodiano per esigere dallo spettatore, nello stesso tempo affascinato e un po’ perduto di fronte a tanta abbondanza un’attenzione e una disponibilità corrispondenti alle sue ambizioni. Per il suo grande ritorno, Terrence Malick ha dunque scelto di essere più fedele alla sua arte sperimentale che alla propria leggenda di regista mitico: e ci consegna così un film profondo e sconcertante. (Frédéric Bonnaud, Les inrockuptibles)
Malick, il poeta, affida allo schermo una nuova ode lirica : senza dubbio la più complessa della sua gloriosa trilogia (Michael Henry, Positif)
Un opera ambigua e contraddittoria, di cui, immagine per immagine, si avverte la grandezza, senza giungere a recuperarla criticamente. (Claudio G. Fava, Guerra in 100 film)
THE NEW WORLD
L’ode e l’elegia sono tradizionalmente i due grandi generi lirici: la celebrazione da una parte, il compianto dall’altra. Malick potrebbe rivendicare la prima, tanto celebra la Natura e la Natura umana in un medesimo movimento; ma il “nuovo” mondo è antico. (…) L’elegia ritorna su un grande mondo svanito. (Stéphane Delorme, Cahiers du Cinéma)
Vale la pena rischiare la deriva misticheggiante facendo critica su un’opera che non invita alla danza, che non ti chiede di assecondare il suo ritmo narrativo, ma che esige l’abbandono “all’ondeggiante elemento”. (Fabrizio Tassi, Cineforum)
E’ facile prevedere che The New World, maltrattato dalla critica e ignorato dal pubblico, sia uno di quei film che non vogliono morire: dapprima rimosso e poi recuperato come oggetto di culto, lo vedremo riemergere in virtù di valori che non siamo ancora preparati a riconoscere. (Paolo Cherchi Usai, Segnocinema)
THE TREE OF LIFE
Un Amarcord texano di rara poesia, una delle più potenti storie sulla famiglia raccontate al cinema in questi anni. (Massimo Bertarelli, Il Giornale)
Un poema soverchiato dalla propria ambizione, una cosmogonia frantumata in troppi satelliti filosofici, scientifici e religiosi, un film che ne contiene almeno altri tre… The tree of Life rischia d’entrare di slancio nella disagiata categoria dei capolavori mancati. (Valerio Caprara, Il Mattino)
Lo si vede come si ascolta una sintonia, The Tree of Life: senza fretta, abbandonandosi ai suoi movimenti e al tema che più volte torna. (Roberto Escobar, L’Espresso)
Il Signore domanda : «Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della terra ?» (Libro di Giobbe, 38). E Terrence Malick risponde: «Là sulla spiaggia, guarda, ne ho le immagini». The Tree of Life, il quinto film del regista americano, è di una presunzione di volta in volta agghiacciante, ridicola e sconvolgente. (Thomas Sotinel, Le Monde)