René Clair. Il sorriso al cinema
di Giulio D’Amicone (Falsopiano, Alessandria 2010, pp.199, 17 euro)
Sessant’anni fa era un classico assoluto dei cinéclub, oggi René Clair è un regista quasi accantonato dalla comunità cinefila. In questa monografia, Giulio D’Amicone parte subito da un’affermazione provocatoria, definendolo “il più grande regista della storia del cinema”. Quindi la motiva, sostenendo che “i suoi film, anche i meno difendibili, respirano cinema dalla prima all’ultima inquadratura” e compongono un quadro “non si saprebbe immaginare più esauriente delle possibilità offerte dal linguaggio filmico”.
E infine descrive il suo “stile aristocratico”, da “ultimo erede di una tradizione artistica e filosofica che conta tra i suoi antecedenti La Rochefoucauld e Marivaux”: rifiuto di un approccio diretto con la realtà, qualche limite “nobiliare” (ad esempio, la tendenza a rappresentare il popolo parigino in termini vivaci ma stereotipati), la continua riflessione sul linguaggio e sul rapporto tra la realtà e la sua rappresentazione. Breve introduzione, seguita da un’analisi film per film: da Paris qui dort (1924) e Entracte (“l’unico tra i film di Clair che non ebbe origine da un’idea del regista”) fino a Per il re, per la patria e per Susanna (1964), passando attrraverso Sotto i tetti di Parigi, Il milione, A me la libertà, Accadde domani, Il silenzio è d’oro (“il suo capolavoro”) e via via tutti gli altri.
Vivement Truffaut!
di Ugo Casiraghi (Lindau, Torino 2011, pp.281, 24 euro)
Dopo Alfabetiere del cinema e Naziskino, ebrei ed altri erranti, Lorenzo Pellizzari cura un altro volume degli scritti di Ugo Casiraghi (1921-2006), critico del quotidiano L’Unità dal 1947 al 1977, quindi suo collaboratore (e, tra le tante altre cose, membro fisso del comitato scientifico della Cineteca Griffith di Angelo R.Humouda). In questo caso, si tratta dei testi che Casiraghi realizzò in occasione dell’uscita in videocassetta di tutti i film di Truffaut: ventitré capitoli che corrispondono ai ventitré film (21 lungometraggi e due corti) del regista francese, e che confluiscono in una vera e propria monografia, dove le opere vengono descritte, approfondite e sviscerate con stile pacato e grande leggibilità. Con una premessa di Walter Veltroni, che aveva lanciato tutta l’operazione dei film in VHS quando dirigeva L’Unità. E con una prefazione di Pellizzari, un’introduzione in cui Casiraghi spiega tra l’altro il sottotitolo del volume (“il cinema, i libri, le donne, gli amici, i bambini”), e un utile apparato: le recensioni scritte a suo tempo da Casiraghi all’uscita dei film di Truffaut nelle sale, permettendo un confronto non solo sull’evolversi del giudizio del critico, ma anche sulle trasformazioni dei criteri di valutazione attraverso le varie epoche.
Cinici, infami e violenti
di Daniele Magni e Silvio Giobbio (Bloodbuster, Milano 2010, pp.319, 25 euro)
Nuova edizione del dizionario dei film polizieschi italiani anni ’70 pubblicato da Bloodbuster, il negozio milanese specializzato in “tutto il cinema dalla B alla Z”. Vengono schedati in ordine alfabetico i film polizieschi, noir e criminali del decennio (da Abuso di potere di Camillo Bazzoni a Una vita lunga un giorno di Sam Livingston/Ferdinando Baldi), accompagnati da saggi sul “prima del poliziottesco”, sulla sua stagione d’oro e sul “dopo”, con le derive sempre più televisive. Un libro realizzato con la passione dei fan, ma anche con discernimento critico. Le schede sono accompagnate da indicazioni videodiscografiche, mentre in coda figurano appendici su registi, musicisti e interpreti (con foto anche dei principali caratteristi), breve bibliografia, videografia e discografia. Per scrupolo, alla fine sono stati inseriti pure i polizieschi francesi coprodotti dall’Italia, che però in effetti non c’entrano. Libro di assoluta utilità per i cultori dell’argomento (nella stessa collana c’è anche “Segretissimi – Guida agli spy-movie italiani anni ‘60”). Con prefazione di Umberto Lenzi, che facendo finta di niente indica en passant i suoi autori preferiti: Castellari, Massi, Di Leo, Girolami, Guerrieri e ovviamente se stesso.
Hedy Lamarr, la donna gatto
di Edoardo Segantini (Rubbettino, Soveria Mannelli 2011, pp. 260, 16 euro)
La vita e la carriera di Hedy Lamarr, al secolo Hedwig Kiesler (1913-2000), la donna più bella del mondo, l’attrice viennese diventata famosa per essere apparsa completamente nuda nel film Estasi di Gustav Machaty, poi trasferitasi alla Metro Goldwyn Mayer per ricoprire ruoli a dire il vero spesso decorativi. Bellissima lo era, anche se l’autore ricorda più volte la sua convinzione di avere seni picccoli. E il volume rievoca dettagli e curiosità della carriera, la sua decisione di diventare produttrice indipendente (La Venere peccatrice di Edgar Ulmer, 1947), i suoi legami con l’ambiente dell’immigrazione mitteleuropea a Hollywood. Ma il libro sottolinea un episodio meno noto: Hedy Lamarr era stata sposata in Austria con un potente fabbricante d’armi (da cui era fuggita avventurosamente), e nel 1942 aveva cercato di aiutare la causa bellica americana brevettando un sistema per guidare via radio i siluri senza essere intercettati dal nemico. Suo partner in quel brevetto era George Antheil, inventore di macchine musicali meccanizzate e coautore del famoso film d’avanguardia “Ballet mécanique”(con Fernand Léger e Man Ray). Ebbene, quel brevetto, poi lasciato scadere, anticipava i principi su cui si sarebbero basati i telefonini cellulari, come è stato riconosciuto all’attrice nel 1997 da un premio della Electronic Frontier Foundation.
Il melodramma familiare hollywoodiano
di Roberto Manassero (Le Mani, Recco 2011, pp.272, 16 euro)
Saggio di taglio universitario sul melodramma familiare americano degli anni ‘50, inizialmente bollato come semplice produzione strappalacrime per un pubblico femminile, poi preso in considerazione dalla critica auteurista per i registi di maggior personalità (Sirk, Minnelli, Kazan, Nicholas Ray…), quindi addirittura esaltato come lucido e cosciente tentativo di far deflagrare l’invisibilità dello stile hollywoodiano e la convenzionalità dei suoi ritratti sociali. Sottoposto attraverso gli anni alle letture più disparate, il melodramma familiare è un genere “estremo” che punta sull’enfasi dei conflitti drammaturgici, del divismo (Rock Hudson, Lana Turner, Elizabeth Taylor, Montgomery Clift…), degli spazi e dei corpi ripresi per lo più in Cinemascope e Technicolor. I suoi titoli più famosi sono Magnifica ossessione, Il gigante, Qualcuno verrà, Lo specchio della vita, Splendore nell’erba: un genere che parte da materiali narrativi da best-seller e ambientazioni provinciali per lavorare poi sul contrasto tra l’oppressione delle vicende e gli eccessi deliranti della messinscena.
Là dove scende il fiume – il Po e il cinema
di Pino Micalizzi (Fondazione Carife, pp.367, sip, Ferrara 2010)
Nella geografia del cinema italiano, l’immagine del Po sullo schermo costituisce uno degli argomenti più ampi e sfaccettati. In questo volume corposissimo, frutto di un lavoro lungo e capillare, Pino Micalizzi ha schedato oltre cinquecento film, tra lungometraggi proiettati nelle sale, documentari, produzioni televisive, cortometraggi, video. Un lavoro colossale, che parte ovviamente dai film delle origini e tocca poi i titoli più celebri: Ossessione di Visconti, l’episodio di Paisà, La visita di Pietrangeli, Novecento di Bertolucci, La casa dalle finestre che ridono o Le strelle nel fosso di Pupi Avati, e poi Mario Soldati, Antonioni, Olmi, Vancini, ma anche favole originali e poco note come Un ettaro di cielo. Tra le varie sezioni, quella dedicata ai film sulla guerra, la Resistenza, l’epopea di Peppone e Don Camillo, i gialli e gli horror, l’erotismo padano (da Sensualità a Tinto Brass, da Bambola al Corpo della ragassa ispirato a Giuanin Brera). Compreso un documentario anni ’50 sulla pesca degli storioni realizzato da Carlo Rambaldi: siccome gli storioni latitavano, il futuro creatore di King Kong ne fece un paio finti, anticipando così la sua fama di mago dei trucchi.
La coscienza di Tullio
A cura di Stefano Bianchi (ed.Comune di Trieste. 2011, pp.111, 12 euro)
Pubblicazione realizzata in occasione dell’omaggio tributato da Trieste a Tullio Kezich (1928-2009), con mostra, incontri e proiezioni. Nato a Trieste “a pochi passi dalla casa di Italo Svevo e quattro giorni dopo la scomparsa dello scrittore”, Kezich è famoso soprattutto come critico di “La Repubblica” e del “Corriere della sera”, ma il volume rievoca attraverso varie testimonianze i numerosi aspetti della sua attività: come produttore cinematografico, sceneggiatore, autore teatrale e televisivo, collaboratore di Fellini, per qualche tempo anche redattore di “Cinema Nuovo” (presto dimessosi per “incompatibilità con Guido Aristarco”)… A Milano fondò con Ermanno Olmi la casa di produzione “22 dicembre”, in tv fu tra l’altro coinvolto nella produzione del Sandokan con Kabir Bedi, mentre il Teatro Stabile di Genova portò sulle scene il suo famoso adattamento di “La coscienza di Zeno” (1964). Tra le curiosità, anche la sua partecipazione alla collana di libri sul western dell’editore triestino per ragazzi AMZ.
Manuale o baedeker, vademecum o livre del chevet? No, “solo” un’antologia di testi pubblicati nel corso di trent’anni da Oreste De Fornari sul periodo 1939-1968 del cinema americano, ovvero sui Classici americani. Eppure dietro una denominazione così importante ciò che si impone soprattutto nel volume è il tentativo di formalizzare con un sistema di lettura l’esperienza di un cinefilo del passato prossimo, a cavallo tra quello di oggi sopraffatto dal «troppo sussiego, troppo programmatico entusiamo per capirlo» quel cinema, e quello di allora che «lo capiva troppo bene per amarlo»: come afferma puntualmente l’autore, citando la famosa battuta della “sozzetta” Shirley MacLaine per lo scrittore Frank Sinatra nel minnelliano Qualcuno verrà («Io ti amo, però non ti capisco. Cosa ci trovi di strano?»).
È infatti l’effetto-cinefilia che il lettore percepisce dopo poche pagine di lettura, non necessariamente le prime del libro, perché sia l’emozionato conoscitore che il curioso occasionale non resisteranno alla tentazione di leggere il capitolo su questo o quel regista, su questo o quel film, magari riservandosi a un momento successivo i saggi iniziali su Ford e Walsh, su Minnelli e Hawks.
Classici Americani
Così, assieme al “ripasso” di vecchie emozioni emerge l’autore, la cui personalità si impone tanto nelle scelte critiche quanto nella funzionale brillantezza della scrittura, cui si può imputare solo l’aver esemplificato più nell’impianto drammaturgico che in quello visivo la ricetta di glamour e understatement, che per De Fornari è l’asse portante dei classici americani. A leggere le pagine su Hitchcock, viene da pensare che se gli affondi sulle immagini propriamente dette fossero stati più frequenti, il monumento eretto da De Fornari al cinema americano sarebbe stato ancora più alto.
(di massimo marchelli)