Tra i grandi film di Cannes 2011, spicca C’era una volta l’Anatolia (Bir Zamanlar Anadolu’da) di Nuri Ceylan Bilge, il maggior regista turco contemporaneo, già noto anche al pubblico italiano per film come Uzak (2003), Il piacere e l’amore (2006) o Tre scimmie (2008). In questo suo ultimo lavoro, vincitore del Gran Premio della giuria, conferma uno stile narrativo disteso che sviluppa storie apparentemente semplici, in realtà molto complesse e dense di significati coglibili in seconda lettura. Non gli manca un pizzico d’ironia e un florilegio di citazioni cinefile coltissime.
Iniziamo da quest’ultimo punto. Il film rimanda, sin dal titolo, a un classico di Sergio Leone – C’era una volta in America (1984) – facendo riferimento allo spirito profondo del regista italiano che, dilatando i tempi della narrazione, intendeva anche imporre allo spettatore uno spazio di riflessione che, apparentemente, era in piena contraddizione con la velocità dei generi cui si applicava. Altre citazioni nascono dalla storia stessa raccontata, una vicenda che fa riferimento al primo lungometraggio firmato da un altro maestro del cinema contemporaneo: il greco Theo Angelopoulos. Il ricordo va a Ricostruzione di un delitto (Anaparastasi, 1970) in cui un sopraluogo giudiziario, organizzato per chiarire cause e modi con cui è stato commesso un uxoricidio, diventa lo specchio dei rapporti sociali e umani in un’intera società degradata dalla miseria e dall’ossessione verso valori arcaici.
Anche l’opera di cui stiamo parlando muove le prime sequenze dalla ricerca del cadavere di un assassinato, caccia in cui il presunto colpevole indica, o finge di indicare, luoghi sempre diversi. E’ questa la prima parte del film e dura oltre un’ora sulle due e venticinque in cui si articola la storia. Dopo una serie di soste, una cena notturna e qualche schiaffo dato all’arrestato da un ufficiale di polizia, ma prontamente bloccato dal procuratore venuto dalla capitale per seguire l’inchiesta, il cadavere è trovato, dissotterrato – ha mani e piedi legati alla maniera degli incaprettamenti mafiosi – e trasportato nel paese più vicino dove, in un improvvisato obitorio, si svolge una sommaria autopsia.
Con molte reticenze riusciamo a capire che si è trattato di un delitto sentimentale – un amante ha ammazzato il marito della donna con cui aveva una relazione – ma questo non è il solo dato importante. Il viaggio e la vicinanza hanno portato anche guardie, magistrato e dottore a capire qualche cosa di loro e del mondo che lo circonda. Il magistrato scoprirà che la moglie, che ha sempre creduto morta per cause naturali, in realtà si è suicidata. Il medico sarà toccato dalla violenza primordiale del dramma e tacerà, nell’autopsia, alcuni particolari che rendono il delitto particolarmente orribile e che avrebbero aggravato la posizione dell’omicida. Gli stessi poliziotti avranno mostrato come ciascuno sia diverso dai colleghi, abbia atteggiamenti opposti nei confronti del proprio lavoro. C’è chi pensa solo a trarre minimi vantaggi da qualsiasi occasione e chi si indigna ancora davanti alla brutalità della natura umana, anche se non esita a usare la violenza. La regia ci fa scoprire tutto questo disseminando la storia d’indizi senza mai cercare d’indottrinarci e spiegarci o banalizzare ogni passaggio. E’ un testo magnifico, ricco di spruzzate di mesta ironia e di costruito con una densità estrema, davvero un grandissimo film.
(di Umberto Rossi)