Cronenberg e Sokurov su tutti


festival venezia 2011Diario di bordo di Venezia 68. Parecchi film buoni. Parecchi film meno buoni o deludenti. Diciamo: un sostanziale pareggio. Qui parliamo dei film migliori (parere personale, ovvio). Il film di George Clooney, Le idi di marzo, conferma la sua abilità di regista: sa raccontare e mettere in scena i suoi pensieri scomodi sulla politica americana che continua a portarsi dietro una scia di scandali. Basta sollevare un angolo del tappeto e appaiono intrighi, sesso, doppi giochi, slealtà.
Attori di vaglia: oltre a Clooney, Ryan Gosling, Philip Seymur Hoffman, Paul Giamatti. Ugualmente godibile e perfido con la società americana è Carnage, scatenata farsa da appartamento di Roman Polanski. Unità di tempo, luogo e azione perfettamente rispettate: i protagonisti, la coppia borghese Kate Winslet e Christoph Waltz e quella dei neo-quasi-ricchi Jodie Foster e John C. Reilly, si colpiscono con qualsiasi arma, retorica e non, per la gioia dello spettatore. Battute a raffica. Anche Dark Horse di Todd Solondz traccia un ritratto per niente attraente della società americana. Il protagonista Abe lo dice chiaro e tondo: “La verità è che siamo tutti orribili”. Lui per primo. Solondz, come al solito, è abilissimo nel descrivere con tranquilla chiarezza l’abisso di vuoto in cui si muovono i suoi prigionieri, stretti tra realtà e allucinazioni. Il migliore di tutti gli americani, canadesi compresi, è David Cronenberg, in trasferta a Vienna. In A Dangerous Method risale ai suoi vati fondatori, va a rendere omaggio ai primi esploratori dell’inconscio, della libido e delle nevrosi. A formare la trinità cronenberghiana sono Jung e Freud più Sabina Spielrein, loro allieva e per Jung anche appassionata amante. Il film è incandescente, sprofondato dentro una ambientazione molto controllata, belle case, bei giardini, bei costumi. È quel che sta sotto che interessa a Cronenberg come a Jung e a Freud: è il vulcano nascosto, è la lava.

Due bei film dal lontano Oriente, più uno dove l’Oriente è arrivato da noi. Tao Jie – A Simple Life di Ann Hui racconta di un’anziana donna di Hong Kong che per sessant’anni ha servito la stessa famiglia. È rimasto ad aiutarla l’ultimo dei suoi ‘padroni’. Tra i due c’è una rete fitta di simpatie e di comprensione. Un film di dolce intimità e umanità, mosca bianca in mezzo a innumerevoli film truci e violenti. In Cut di Amir Naderi, un giovane regista senza soldi si trasforma in apostolo del vecchio cinema. Proietta sulla terrazza del posto dove abita, a Tokyo, le gloriose pellicole di Ford, Mizoguchi, Kurosawa, Fellini. E per ripagare un debito agli yakuza diventa un bersaglio umano di pugni e cazzotti a pagamento. Sopravvive stilando, colpo dopo colpo, la classifica dei migliori cento film di sempre. Io sono Li di Andrea Segre ha al centro una donna cinese, Li, arrivata clandestinamente a Chioggia, che deve ripagare i suoi ‘proprietari’ fino all’ultimo euro per poter rivedere il figlio. Li lavora in un bar e gli avventori imparano a volerle bene. Sono l’ex jugoslavo Bepi, detto il poeta (Rade Sherbedgia), Coppe (Marco Paolini), l’Avvocato (Roberto Citran) e Devis (Giuseppe Battiston). Il film è semplice, delicato, rispettoso. È il miglior film italiano della Mostra tra quelli che sono riuscito a vedere (erano un’infinità), a pari merito con il documentario Piazza Garibaldi di Davide Ferrario che segue i garibaldini nella loro impresa e verifica come l’Italia di allora, appassionata e patriottica, sia ben lontana dall’Italia stanca e smemorata di oggi.

L’accoppiata di derivazione letteraria formata dal Faust di Alexander Sokurov e dalle Cime tempestose della regista Andrea Arnold è tra le cose più preziose viste a Venezia. Sokurov “reinventa” il Faust di Goethe trasformandolo in un campione della modernità, in un personaggio posseduto dalla voglia di andare oltre, di usare il patto con il diavolo per inaugurare una nuova epoca. Immagini elaborate, colori soffocati, tensione continua. Non è un film facile: è per spettatori allenati. Ma questo Faust non è solo un film: è un’esperienza trascinante e vorticosa. Anche il romanzo di Emily Brönte viene trasferito al cinema dalla Arnold in maniera sorprendente, oscura e insana. E Heathcliff è nero: è l’alieno, il barbaro. Volete invece un bel film, elegante, preciso, attraente, con un magnifico Gary Oldman, un film girato come si faceva una volta? Eccovi La spia dello svedese Tomas Alfredson, tratto dal romanzo di Le Carré. Nel cuore dei servizi segreti inglesi c’è un doppiogiochista russo, bisogna scovarlo. Precisione di ogni particolare, abiti, ambienti, scrivanie, mobili. Anche la polvere sembra curata granellino per granellino. Una bella sorpresa è Texas Killing Fields di Ami Canaan Mann, figlia di Michael Mann. Film poliziesco con caccia a un serial killer (o due?) che uccide giovani donne e le abbandona mutilate in un terreno paludoso. Poliziotti smarriti, false piste, scontri sanguinari, tre coprotagonisti: Sam Worthington, Jeffrey Dean Morgan e l’ormai immancabile Jessica Chastain. Avvertenza: in una scena si fa un salto sulla sedia.

Per finire, una menzione per due eccellenti documentari. Frederick Wiseman va al Crazy Horse, il locale parigino dove si celebrano i fasti del nu chic e si dedica con puntiglio al corpo femminile, soprattutto alle fesses, che il corpo riassumono. Resta incantato. Come noi. Nel finale, l’immagine di un mare di sederi femminili che si muovono come onde è superlativa. Whore’s Glory di Michael Glawogger è un viaggio in tre tappe, a guardare come ‘lavorano’ le prostitute: molto professionali e ‘pulite’ a Bangkok, disperate nel Bangladesh e in Messico. Immagini lontane da ogni sensazionalismo, dolorose sulla crudeltà del mondo.

(di Bruno Fornara)

Postato in Festival, Festival di Venezia, Numero 94.

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