La 14°edizione dell’evento cinematografico più importante della Liguria, ha voluto approdare come prima tappa del suo viaggio di una settimana sulle coste dell’Equador, con la rassegna Oltre il Confine e la presenza del regista e sceneggiatore Fernando Mieles, autore di Prometeo Deportado ( Equador/Venezuela, 2010).
Si tratta della prima rassegna cinematografica equadoriana in Italia, organizzata con grande impegno e difficoltà al fine di “presentare un buon Cinema e creare uno scambio tra noi e loro, tra lo sguardo del cittadino e il gesto dell’emigrante, tra il confine dell’italiano e l’orizzonte del sudamericano”, spiega Antonella Sica, direttrice artistica del Festival e “per creare una nuova identità equadoriana realizzando le sue condizioni di visibilità” aggiunge l’attrice e regista Clara Salgado per la quale il Cinema “deve essere capace di mostrare un mondo in cui lo spettatore si possa immergere per capire le sue caratteristiche, la sua gente”. E pur ricordando che ogni racconto ha uno sguardo e un’estetica diversa l’obiettivo rimane sempre lo stesso: “proiettare un’immagine realistica dell’Equador, Paese dal paesaggio ricco e variegato e popolato da persone di etnie differenti, ognuna con le sue convinzioni e i propri modi di esprimersi”. A queste voci si aggiunge quella della rappresentante del Consolato di Genova che affida la parola all’emozione, lasciando all’entusiasmo del momento la gioia e l’orgoglio dell’incontro.
E, se prima della proiezione il regista ci aveva solo annunciato piccole curiosità sulla sua pellicula, accennando al soggetto, la storia di un viaggio di quattro persone dell’Equador protagoniste dell’azione e al modo nel quale è arrivata in Italia, una lettera dall’inizio “quando arriva Prometeo in Italia” firmata da una ragazza equadoriana che vive nel nostro Paese, a luci accese in sala ci racconta molto di più.
È una storia che vuole illuminare quelle che lui stesso definisce “le altre storie, le altre voci”, in primis la sua esperienza personale. Dopo aver terminato gli studi di Cinema presso la Escuela Internacional de cine y televison di Cuba decide di fare un viaggio in Europa, “il più lungo e travagliato della mia vita. Sono stato arrestato e rimpatriato a forza. Da questo momento ho capito che quando arrivi in aeroporto non sei più una persona ma un numero”. Dalla sua storia a quella di tutti, per far domandare e provare a rispondere lo spettatore al quesito “Cosa significa essere equadoriano?”, andando a toccare un argomento sempre attuale e insidioso, la tematica del confine, della chiusura, dell’orizzonte tagliato dalle diversità apparenti.
Quindi un film “non solo sulla mia storia o sull’immaginario collettivo dell’Equador ma su uno scenario universale”, e quale mezzo migliore di narrazione se non il Cinema, “quella forma artistica non di uno ma di tutti, globale e totale, internazionale e atemporale?”. Ed è con questa riflessione che Fernando ci invita a pensare alla forte alchimia che si viene a creare “tra Arte e Vita, tra Finzione e Realtà, tra la fondamentale circostanza del reale dalle quale si inizia a muovere l’elemento fictionale”. Un duplice movimento, dalla Vita al Cinema e viceversa; una passaggio di racconti, dall’individuale al collettivo all’universale, un viaggio che perde la meta del singolo per trovare quella del gruppo nella condivisione di un piccolo spazio, nella ripartizione di un tempo infinito, nel nome del rispetto, della comprensione, della magia dell’emozione.
Così il regista ci saluta, rispondendo alla domanda di un possibile sviluppo del racconto in una trilogia sul tema della migrazione. Ma se per scrivere 115’minuti ci sono voluti dieci anni di lavoro e di incontri, non ci resta che aspettare iniziando a dialogare con il vicino che il destino ha voluto farci incontrare. Mi avvicino al regista per fargli i complimenti e lui, con la sua camicia bianca e lo sguardo profondo risponde “ De nada, y todo grazias a la Vida”.
(Chaira Accogli)