Uno nessuno e centomila. Robert Rodriguez è così. Tranne che non è in cerca d’autore perché, come se non bastasse, nei ritagli di tempo riesce a essere anche un autore. Quando secoli fa Rodriguez esordì con il minuscolo El Mariachi sembrava che il regista texano fosse un solo un veloce fenomeno stagionale: oggi qui, domani dimenticato. Invece sono trascorsi 19 anni e Robert Rodriguez macina ancora film con l’entusiasmo di un principiante entusiasta.
Macchina autosufficiente che ha creato non pochi problemi ai rigidissimi sindacati cinematografici americani che di certo non vedevano di buon occhio un regista attivo come montatore, musicista, sceneggiatore, creatore di effetti speciali e chissà cos’altro, Rodriguez nel frattempo ha fatto anche di peggio: è diventato la major di se stesso. Ma non alla maniera di un George Lucas o di un James Cameron che creano intere aziende con società affiliate alla casa madre che realizzano prodotti ancillari e, contemporaneamente, inventano e brevettano nuove tecnologie. Robert Rodriguez si muove su scala più ridotta. A lui basta (si fa per dire) il suo piccolo parco dei giochi dove potere fare film a sua immagine e somiglianza. In questo senso, sì, Rodriguez è un autore. Probabilmente non nel senso che immaginavano i padri della nouvelle vague, ma di certo nel senso che la sua peculiare poetica è intimamente intrecciata con un’idea di artigianato (né alto né basso) che contiene in sé il senso stesso del suo fare cinema (permettendo così ai suoi film di essere riconoscibili sempre come approccio alla materia e sguardo; anche quando non convincono del tutto). Esempio perfetto di regista post-cinematografico, Rodriguez è un ipertesto di sintagmi spettacolari, o se si vuole di frasi fatte che, al pari del suo compañero Quentin Tarantino, è capace di reinventare con un piglio e un’energia tale da liberare la sua proposta dal sospetto dell’autoreferenzialità. Eppure, laddove Tarantino possiede una potenza di sguardo e una capacità di pensare per inquadrature schiettamente classica, Rodriguez, inevitabilmente, filtra la sua specificità filmica attraverso un insieme di sistemi linguistici totalmente spurio che non si riconduce mai al minimo comune denominatore del cinema. Tarantino, invece, riporta sempre tutto alla casa del cinema. E la differenza principale tra i due sta tutta qui. Rodriguez non parla cinema. Lui parla tecnologie (soprattutto videoludiche). Tarantino parla solo cinema. Eppure nella pratica filmica di Rodriguez, schiettamente impura, contaminata per definizione, vive con forza un gusto, completamente inattuale, per quanto rivitalizzato attraverso elementi condivisi della cultura di massa, che oscilla, senza soluzione di continuità, fra le asperità del cinema statunitense degli anni Settanta, e lo stupore naïf delle creazioni fantastiche di Ray Harryhausen (come dimostrano perfettamente i suoi film avventurosi dedicati agli Spy Kids o a Sharkboy e Lavagirl). Se Sergio Leone compie la prima grande opera di trasvalutazione metalinguistica del cinema classico e del suo relativo bagaglio mitopoietico di questo, Robert Rodriguez, cineasta inevitabilmente post-John Woo, si ritrova nella posizione di reinventare proprio il cinema di secondo e addirittura terzo grado metabolizzato dai numerosissimi discepoli di Leone e Woo. E l’unica modalità a sua disposizione è proprio quella di filtrare il tutto attraverso un approccio mediato da un tipo di partecipazione che non è quella del (meta)cinema di una volta (ossia: riconosco la citazione…) ma dalla consapevolezza di partecipare delle medesime strutture di individuazione del principio di realtà. Il regista quindi è colui che domina e riproduce con la maggiore accuratezza documentaria possibile le strutture linguistiche condivise della comunità dei parlanti. Esemplari in questo senso i corti della serie Ten Minute Film School (nel frattempo estesi anche alla cucina Tex-Mex) dove tutti i segreti dei suoi film vengono ridotti e spiegati nei minimi dettagli. Ossia vengono condivisi e resi riproducibili. Eppure Robert Rodriguez non è un replicante. Semmai il contrario. Nel suo cinema vive una sorta di paradossale democrazia del linguaggio di cui proprio il suo approccio fai da te di base è la maggiore garanzia di autenticità. Il padroneggiare le strutture della lingua condivisa del cinema gli permette di ritagliarsi la propria libertà all’interno del sistema produttivo. Fare significa libertà e, inevitabilmente, la libertà produce il fare. Rispetto a Roger Corman che si muoveva su una scala ridotta rispetto a Hollywood rovesciandone le priorità estetiche, Robert Rodriguez, a partire dal controllo dei mezzi di riproduzione, tenta, attraverso la singolarità del suo approccio (e di conseguenza del suo sguardo), di creare un mondo a sua immagine e somiglianza di cui Machete oggi sembra essere l’ipertesto perfetto. E non sorprenda che giunta al suo grado incandescenza, la macchina Rodriguez riesca a produrre persino un esempio di cinema politico mutante affrontando di petto il dramma dell’immigrazione clandestina in Texas. Se Michael Bay è il regista che volle farsi macchina, Robert Rodriguez è senz’altro la macchina che vuole continuare a fare cinema. E nel panorama del cinema americano contemporaneo, sono proprio cineasti come Robert Rodriguez a fornire le indicazioni più interessanti sulle possibili mutazioni ulteriori del cinema. Anche e soprattutto quando il cinema non è più il cinema.
(di Giona A. Nazzaro)