Diceva Mario Monicelli che la realtà cinematografica rifugge dal primo piano, perché in questo c’è sempre qualcosa di esagerato che porta in un’altra dimensione e sconfina sovente nel trucco di chi non sa girare. Il discorso del re è un film fatto in prevalenza di primi piani. Quindi, se le premesse del sillogismo sono vere, ne consegue si tratti di un film che ha poco a che fare con la realtà, anche se non necessariamente un film falso. Il quasi quarantenne Tom Hooper – regista con alle spalle un po’ di televisione (in Elisabeth I ha diretto Helen Mirren) e un paio di lungometraggi dedicati rispettivamente all’apartheid (Red Dust) e alla biografia di un celebre allenatore di calcio (Il maledetto United) – ha scelto di glorificare Giorgio VI d’Inghilterra (re della seconda guerra mondiale e padre della regina Elisabetta e di Margaret che qui appaiono bambine), raccontando la sua lotta contro la balbuzie, grazie all’aiuto di un eccentrico australiano, senza titolo di logopedista, ma con alle spalle una lunga esperienza a curare i reduci della Grande Guerra.
I fatti scorrono veri e documentati come in un servizio di “Storia Illustrata”: l’amore del figlio cadetto di Giorgio V per la moglie Elisabetta e per le sue due figlie, la morte del padre Giorgio V, l’abdicazione del fratello Edoardo VIII che lo proietta contro voglia sul trono, gli incontri con Churchill e con il cardinale di Canterbury, l’incoronazione, lo scoppio della guerra e il suo celebre discorso radiofonico alla nazione. Questa la realtà. Ma, proprio come accade in genere negli sceneggiati televisivi, Tom Hooper non si preoccupa tanto di lei, di indagarne cioè cause ed effetti, perché preferisce invece tenerla sullo sfondo (solo un po’ enfatizzata e deformata come accade alle vie e ai monumenti inglesi quasi sempre ripresi con l’abuso del grandangolo) di ciò che davvero nel suo film conta: vale a dire la recitazione degli attori. Sono loro, non i personaggi reali che sono chiamati a interpretare, i veri protagonisti di Il discorso del re.
E, ovviamente, in questo gioco narcisistico i primi piani si sprecano, come un omaggio già programmaticamente in odore di Oscar al virtuosismo tecnico e mimetico della grande scuola teatrale anglosassone. E in Il discorso del re gli attori sono davvero tutti di una bravura “mostruosa”: a cominciare da Colin Firth e Geoffrey Rush, sui cui duetti il film in gran parte si fonda, per comprendere una Helena Bonham Carter eccezionalmente misurata, e arrivare al consueto virtuosismo underplay di Michael Gambon e Derek Jacobi, veterani delle scene londinesi, e al cammeo di Claire Bloom. Alla fine si esce dalla sala esclamando: “Ma che bravi!”; solo qualcuno, sovrastato da tanti primi piani, sussurra: “Ma dov’è il cinema? Dov’è la realtà di quei personaggi tanto sovrastati dallo sguardo su chi si è chiamato a interpretarli?
Il discorso del re
(The King’s Speech, Gran Bretagna – Australia, 2010)
Regia: Tom Hooper
Sceneggiatura: David Seidler
Fotografia: Danny Cohen
Musica: Alexandre Desplat
Scenografia: Eve Stewart
Costumi: Jenny Beavan
Montaggio: Tariq Anwar
Interpreti: Colin Firth (Re Giorgio VI), Geoffrey Rush (Lionel Logue), Helena Bonham Carter (Regina Elisabetta), Guy Pearce (Edoardo VIII), Michael Gambon (Re Giorgio V), Tomothy Spall (Winston Churchill), Jennifer Ehle (Myrtle Logue), Derek Jacobi (Cosmo Lang), Claire Bloom (Regina Mary), Eve Best (Wallis Simpson)
Distribuzione: Eagle Pictures
Durata: un’ora e 41 minuti
(di Aldo Viganò)