Storia di una donna amata e di un assassino gentile: la donna amata è Marina Piperno e l’assassino gentile il regista del film, Luigi Faccini, legato da un sodalizio artistico e affettivo a Marina da oltre trent’anni. Assassino perché “è opinione di Freud, in una rilettura del mito di Caino e Abele, che l’uomo nasca assassino”, doppiamente assassino, lui, “in quanto gentile e quindi non ebreo appartenente all’orda che ha perseguitato e sterminato il popolo ebraico”. E Marina è ebrea.
Il film, diviso in sette capitoli, è stato presentato in anteprima nazionale al cinema Il Nuovo alla Spezia. Abbiamo incontrato Marina Piperno affinché ci raccontasse cosa ha significato per lei prendere parte ad un progetto dove non solo fornisce la sua esperienza di produttrice cinematografica ma anche e per la prima volta, le sue celate qualità di attrice.
Questo film, come tutto il cinema di Faccini, è un racconto etico. Qui, attraverso la storia personale di una donna, si ripercorre una parte importante e terribile della nostra Storia. Lei però non è soltanto un mezzo ma anche il fine. Faccini oltre a raccontarla come personaggio, ci mostra una Persona e il suo affaccendarsi nelle cose della vita: dipinge, prepara la cena per gli amici, seppellisce il suo cane Bubul…. Lei ha avuto il coraggio di mostrarsi e quindi di svelarsi al pubblico.
Sì, ed è stato difficile, all’inizio non volevo farlo ed ho opposto molta resistenza. L’idea di lavorare con Faccini mi preoccupava, è molto esigente con i suoi attori e io non sono certo un’attrice. Da cinquant’anni, da quando ho iniziato a fare la produttrice, sto dietro e non davanti alla macchina da presa. Faccini ha insistito molto, abbiamo fatto liti furibonde e poi ho ceduto. Sapevo che raccontare la mia vita significava raccontare il secolo scorso: le leggi razziali, la seconda guerra mondiale, la liberazione, il boom economico, le Brigate Rosse… Le riprese hanno richiesto due anni di lavorazione, ha girato più di cento ore per poi montarne tre e mezzo. Sono stata una persona ma anche un’attrice.
Lei, come Faccini, pensa che il cinema debba essere etico, “modificazione e divenire”?
Io ho sempre fatto quel tipo di cinema, anche prima di incontrare Faccini. La prima cosa che ho prodotto è stato un documentario di Ansano Giannarelli, 16 ottobre ’43, dove si racconta il rastrellamento e la deportazione in Germania di 1300 ebrei romani. Io mi salvai perché la mia famiglia riuscì a fuggire. Ho sempre pensato che il cinema dovesse modificare il mondo e lo ha fatto.
E il cinema come intrattenimento? Le “fette di torta”, come lo chiamava Hitchcock.
Amo anche quel cinema: il musical, il western, la commedia classica. Mi sarebbe piaciuto produrre un film di spettacolo, ma in Italia è difficile. L’unico grande cinema di spettacolo è la commedia becera. Forse ho commesso l’errore di tornare, dopo aver iniziato la mia carriera a New York.
Lo considera un errore, a questo punto della vita?
In realtà no. Non sarei mai riuscita a vivere in America.
L’ultimo film di fiction che ha prodotto è Giamaica di Faccini e risale al ’98. Le piacerebbe tornare a produrre una fiction?
Sì, avrei voluto che fosse una fiction il docufilm che abbiamo finito di girare e che stiamo montando in questi giorni, tratto dal libro di Faccini, L’uomo che nacque morendo, sulla storia dell’ufficiale tedesco Rudolf Jacobs, passato alla Resistenza e morto in uno scontro a fuoco con le brigate nere che occupavano Sarzana. Ma dove trovavo i soldi per fare un film ambientato nel 1944, un film corale?! Abbiamo provato con la Rai ma ci hanno fornito un rifiuto motivato da argomenti banali. Quindi abbiamo prodotto per nostro conto ma i mezzi ci consentivano soltanto un docufilm. Dovrebbe essere pronto in un paio di mesi. Ho un ruolo anche qui, sono il produttore che racconta perché e come nasce il film. Non sono un’ attrice ma mi ritrovo ancora una volta davanti alla macchina da presa!
(di Antonella Pina)