Hereafter


HereafterClint, il cinema senza aldilà
E’ noto che Peter Morgan – sceneggiatore inglese figlio di un ebreo tedesco e di una cattolica polacca (L’ultimo re di Scozia, The Queen, Frost/Nixon, ecc.) – ha scritto Hereafter per Steven Spielberg, che ha poi scelto di passarlo tramite la DreamWorks a Clint Eastwood, il quale ha accettato di dirigerlo a condizione che nel cast ci fosse Matt Demon. Per Eastwood, pertanto, si tratta di un film che lo vede soprattutto nel ruolo di “metteur en scène”: un’opera nata lontano da quel mondo autoriale che ha caratterizzato l’ultimo periodo della sua produzione cinematografica, anche se non proprio una pellicola su commissione.

E che così sia un po’ lo si avverte nel modo alquanto faticoso con cui le tre storie parallele che andranno a comporre il film si articolano e s’intrecciano narrativamente nella prima parte; ma ben presto in Hereafter accade quella cosa meravigliosa che si verificava soprattutto nel cinema classico hollywoodiano: cioè, la capacità di un regista di talento di fare propria una storia non sua e di esprimere in modo affatto personale una visione del mondo e degli esseri umani che lo abitano solo per la specifica virtù del suo saper fare del cinema. Le inquadrature e i movimenti della cinepresa, i ritmi e i raccordi di montaggio, la direzione degli attori e la costruzione armonica della recitazione, persino gli effetti speciali affidati ai computer della Scanline VFX – in una parola, il consapevole uso tecnico ed espressivo del linguaggio – fanno così, infine, di Hereafter un’opera assolutamente originale.

Non un film fantastico sull’aldilà e neppure l’interrogativo di un uomo anziano sull’ipotesi consolatoria di una vita dopo la morte, ma ancor una volta il trionfo del racconto di esseri umani, delle loro contraddizioni e le loro speranze, ad opera di un artista consapevolmente laico e programmaticamente concreto, per il quale anche la rappresentazione della morte – sia essa la propria (quella da cui risorge la giornalista francese annegata nello tsunami) o di una persona cara (il ragazzino inconsolabile per la perdita del gemello) o quella che irrompe con prepotenza nell’universo inconscio di un operaio di San Francisco (Matt Demon) – è in fin dei conti solo una delle vie possibili, attraverso le quali si può legittimamente parlare delle uniche cose – azioni, corpi, parole e comportamenti in uno spazio e in un tempo ben definito – di cui per un artista quale Eastwood vale realmente la pena di parlare. Hereafter è un film integralmente antropologico, anche quando apparentemente porta sullo schermo immagini che fanno riferimento all’aldilà.

E, pur tra lo sconforto di quanti sono sempre più propensi a inseguire i loro pregiudizi piuttosto che vedere ciò che accade realmente sullo schermo (si leggano a proposito tante recensioni, e non solo della stampa cattolica), Clint Eastwood si conferma ancora una volta (la cosa diventa evidente soprattutto dal momento in cui le tre vicende narrative del film confluiscono sullo sfondo londinese) un regista di esemplare concretezza umanistica: un autore classico, che s’inscrive consapevolmente una grande tradizione e che non cessa mai di sorprenderci ed entusiasmarci con la laica concretezza del suo sguardo sulla vita e sul cinema.

Hereafter
(Usa, 2010)
Regia e musica: Clint Eastwood
Sceneggiatura: Peter Morgan
Fotografia: Tom Stern
Scenografia: James J. Murakami
Montaggio: Joel Cox e Gary Roach
Interpreti: Cécile De France (Marie LeLay), Matt Demon (George Lonegan), Thierry Neuvic (Didier), Bryce Dallas Howard (Mélanie), Richard Kind (Christos), Jay Mohr (Billy), Jenifer Lewis (Candace), Derek Jacobi (se stesso)
Distribuzione: Warner Bros. Pictures Italia
Durata: due ore e 9 minuti

(di Aldo Viganò)

Postato in Numero 92, Recensioni, Recensioni di Aldo Viganò.

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