Da qualche anno ho formulato un postulato – un’affermazione priva di evidenza e non dimostrata, ma che ritengo veritaria, dunque necessaria per continuare il discorso – secondo il quale, nei primi anni 2000, la qualità media degli attori nel cinema italiano è stata superiore a quella dei registi e degli sceneggiatori. E’ un’opinione personale e so che in parte è paradossale, ma continuo a crederci.
Dispongo di due argomenti piccoli ma indiscutibili: a) da anni nei pressbook che ricevo alle anteprime vedo che, nove volte su dieci, le voci degli interpreti, comprendono titoli di teatro, cinema, televisione. Più o meno bravi, sono dei professionisti.
Prima, nella seconda metà del ‘900, non succedeva; b) nel cinema italiano lavorano con una certa assiduità almeno due attrici brave straniere senza farsi doppiare: la slovacca Barbara Bobulova, la polacca Kasia Smutniak. C’erano anche prima le straniere piu o meno di passaggio, ma erano doppiate.
Comincio, dunque dagli attori e ovviamente comincio con Toni Servillo senza dimenticare, però, Fabrizio Bentivoglio, Elio Germano e Luca Zingaretti, attori di composizione (nonostante tutto, anche il terzo), cioè capaci di interpretare personaggi diversi l’uno dall’altro, ma senza i limiti e i vizi che talora hanno i teatranti davanti alla cinepresa.
Nel reparto femminile abbiamo tre attrici, quasi dive – Margherita Buy, Valeria Golino, nate negli anni ’60, e Stefania. Sandrelli che potrebbe fare le nonne – che hanno resistito alI’ usura del tempo, riuscendo – soprattutto la Buy – a superare certi stereotipi cui erano condannate da produttori rigidi o incompetenti e da sceneggiatori pigri. Nel cinema italiano è sempre valsa la regola che, dopo i 40 anni, un’attrice è “out”, vecchia. Negli anni ’90 e dopo Mariangela Melato, in un ventennio, è entrata soltanto in una mezza dozzina di film. E sono già tanti. Per non parlare di Giovanna Mezzogiorno, figlia d’arte e “giovane”, che tanto ha contribuito a un film importante come Vincere di Bellocchio. E si fa avanti anche la fiorentina Alba Rohrwacher, padre tedesco e madre italiana. Recitano tutte con gli occhi e il corpo, pur non avendo un sessappiglio evidente. Non mancano le giovani, belIe, sexy e brave (subito/brave) l’eclettica piemontese Anita Caprioli; la solare, pragmatica, siciliana Donatella Finocchiaro che potrebbe allungare la, lista di quella che chiamo la linea Magnani; la generosa, procace Sabrina Ferilli, splendida quarantenne capace di passare, dagli anni ’90, dalla serie B alla A; la poliglotta Valentina Carnelutti, figlia di Francesco, brava anche come doppiatrice; la palermitana Isabella Ragonese, pronta per l’ esportazione insieme con la radiosa romana Micaela Ramazzotti; Valeria Solarino dal sex-appel siculo-venezuelano-sabaudo; due attrici in “ini” come Carolina Crescentini e Valentina Ludovini; Cristiana Capotondi, di cui amo soprattutto Volevo solo dormirle addosso e perché no – Jasmine Trinca.
Abbastanza ricca anche la schiera delle caratteriste: Marina Confalone, Paola Cortellesi, Piera Degli Esposti, Angela Finocchiaro, Claudia Gerini che deve molto a Carlo V’erdone. Si badi che la categoria delle caratteriste è tutt’ altro che inferiore, sul piano espressivo e tecnico, rispetto a quella delle protagoniste: c’è uno scambio reciproco tra l’una e l’altra. Altrimenti non esisterebbe il genere della commedia, asse portante del cinema italiano.
Tra i registi prediligo quelli che, secondo me, si meritano il nome di autori, ma qui subito si apre un problema: quanto conti, film per film, il contributo dei loro sceneggiatori. Non a caso, quando a metà degli anni ’70, dopo 10 anni di critica televisiva, cominciai a fare il cinecritico titolare, ero l’unico tra i quotidianisti a scrivere nel cast “scritto da…” o “scritto con…”. Per me un regista-autore è colui di cui, dopo pochi minuti di proiezione, si riconosce l’ identità: dal suo occhio, dal modo di usare il suo strumento, cinepresa o videocamera digitale: dove lo mette, come lo muove?
Ma è un postulato astratto, valido soltanto, e non sempre, davanti a un televisore se lo accendo a caso e non so che cosa stia guardando.
Comincio allora da due registi esordienti negli anni’ 60: Bellocchio e Bertolucci. (Bernardo, ma non escludo suo fratello Giuseppe) Conto sul primo perché, alla vigilia dell’ingresso nell’alta età, sta attraversando una felice stagione creativa: cerca, trova, sperimenta. Al secondo sono legato da una duratura amicizia che iniziò poco dopo il suo precoce esordio.
Oggi non posso che augurargli di superare presto l’handicap fisico che da anni lo tiene lontano dal lavoro, dal set dove ama tanto lavorare. Abbiamo tutti bisogno di lui. E, prima di andarmene, ho bisogno io di dedicargli quella copertina del Dizionario dei film Zanichelli che in tredici edizioni non gli abbiamo ancora dato.
C’è un terzo vecchio regista – al quale l’aggettivo spetta di diritto poiché nacque nel 1931 ed esordì nel 1959 prima degli altri due – sul quale conto, Errmanno Olmi. Corrado Stajano, grande giornalista/scrittore e nostro comune amico, ha scritto di lui: «Olmi che sostiene testardamente quel che pensa, ha una grande capacità di tolleranza, unita a una curiosità illimitata che significa…prender parte in modo non formale alla vita altrui.» Vorrei averle scritte io, queste parole.
Conto su Mario Martone (1959) e su tutta la “scuola” napoletana che, come in altri campi (teatro e letteratura, soprattutto), ha una indiscutibile importanza della cultura italiana a cavallo dei due secoli. Vi comprendo registi, sceneggiatori, tecnici, e non escludo gli attori, almeno quelli che hanno la classe di Licia Maglietta.
Conto molto, infine, sull’ eclettico bolognese Pupi Avati (1930) e sul poliedrico romano Carlo Verdone (1950), entrambi sottovalutati da molti critici accademici o faziosi che li spacciano come esponenti di un cinema medio senza tener conto delle punte alte del loro lavoro né dei cambiamenti stilistici e tematici del loro percorso. E chiudo, last but not least, come direbbe Shakespeare col calabrese Gianni Amelio (1945) per il quale ho un’ammirazione pari all’affetto.
A chi mi obiettasse di aver puntato troppo sul sicuro, potrei replicare con tre nomi di registi, anagraficamente non più giovani, ma fuori strada, coerenti con se stessi e un po’ sottovalutati: il torinese Guido Chiesa (1959), il romano valerio Jalongo (1960) e il suo conterraneo Ascanio Celestini (1972), teatrante emerito che almeno con La pecora nera ha il diritto di essere ritenuto per stima, se non per ammirazione, un esponente del nuovo cinema italiano.
(Morando Morandini)