Memorie dell’underground


Il Torino Film Festival dedica una retrospettiva completa a Massimo Bacigalupo, figura di punta del cinema indipendente italiano anni ’60 e ‘70.

Massimo BacigalupoOggi è conosciuto soprattutto come saggista e traduttore, oltre che come docente di letteratura angloamericana all’università di Genova. Ma nelle storie del cinema Massimo Bacigalupo figura come uno dei protagonisti della grande stagione dell’underground italiano, e in tale veste l’ultimo Torino Film Festival gli ha reso omaggio con una retrospettiva completa, accompagnata da una mostra alla GAM imperniata su filmati e materiali dei suoi archivi. Facendo così scoprire come la sua attenzione per il cinema si sia protratta anche oltre la fine degli anni ’70, quando cioè è cessata la sua produzione “ufficiale”.

«A dare una svolta alla mia vita fu la lettura di un articolo di Maya Deren su una rivista americana, quando ero adolescente – racconta – Fin da bambino, a Rapallo, amavo raccontare la vita di famiglia con la mia cinepresa 9,5 e poi con l’8 mm. Poi negli anni ‘60 lessi quell’articolo, in cui si diceva che per fare un film non c’era bisogno del treppiede, delle lampade, dei carrelli e di tutte quelle cose che sembravano obbligatorie. Mi diede un senso di liberazione. In casa avevamo anche questa conoscenza con Ezra Pound, che quando era stato rinchiuso in ospedale psichiatrico in America era stato frequentato da molti giovani intellettuali. Così conobbi amici di Stan Brakhage, entrai in contatto con Jonas Mekas, e quando nel 1964 arrivò in Italia un’antologia di registi indipendenti americani, la feci venire a Rapallo, dove frequentavo un cineclub Fedic. Naturalmente l’underground interessava poco agli autori dei film a passo ridotto. Ma io avevo 16-17 anni e fu importante poterli vedere. Nei primi mesi del 1966 girai Quasi una tangente e al festival di Montecatini vinsi subito il primo premio».

A questo punto s’inserisce il periodo romano…
«L’anno dopo, dovendo iscrivermi all’università, scelsi di andare a Roma, anche nella speranza di frequentare così il mondo del cinema. Pensavo di fare il cineasta»

Di film underground o di normale circuitazione commerciale?
«Non vedevo differenza. Mi piacevano anche i film di Godard o Agnès Varda, e per qualche tempo lavorai a un film più complicato, con attori e un racconto più convenzionale. Ma a Roma incontrai un gruppo di registi che nel 1967 fondarono la Cooperativa del cinema indipendente, sul modello di quella americana. Propugnavano tutti una cultura di rottura, sia nello stile, sia nel modo di produrre e distribuire i film. L’incontro con questi cineasti, da De Bernardi a Leonardi, mi portò ad abbandonare l’idea di un cinema tradizionale o di sbocchi professionali. Nel ’68 i nostri film venivano proiettati al Filmstudio, e poi nei cineclub italiani, o all’estero nelle manifestazioni di cinema alternativo».

E poi?
«In questo periodo avevo voluto disimparare quello che avevo imparato da ragazzo, facevamo film senza titoli, muti, concepiti come un viaggio ottico attraverso le immagini. E facevamo anche film un po’ ideologici, come Tutto nello stesso istante, film collettivo del 1969. Ma dopo qualche anno la Cooperativa ha finito di vivere, alcuni sono passati a film apertamente politici. Nel 1969-70 ho fatto un ciclo di quattro film a sfondo autobiografico, Fiore d’eringio. E siccome avevo vinto una borsa di studio negli Stati Uniti, cominciai a vivere a lungo là, iniziando un nuovo periodo. Un film come Warming Up è molto più gioioso, euforico, segna uno scollamento rispetto a quelli che facevo a Roma e che volevano anche spiazzare lo spettatore. Warming Up era un film gioioso che chiunque in teoria poteva apprezzare, anche se non ha un filo logico e narrativo chiaro. Poi feci Cartoline dall’America…»

Come mai a metà degli anni ’70 hai smesso?
«Quello che volevo fare l’avevo fatto. E mi sono accorto che forse raggiungevo più persone scrivendo con la penna che con le immagini. Ma nel 1985 ho comprato una videocamera e ho cominciato a filmare singoli momenti, senza ambizione di farne dei film. Adesso è intervenuta la Mediateca ligure che si è offerta di digitalizzare tutto, così li ho ripresi in mano e ho tirato fuori per Torino una serie di “ritratti”, di Tonino De Bernardi, Giovanni Giudici, Gregory Markopoulos e altri».

Postato in Festival, Interviste, Liguria d'essai, Numero 91.

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