Per quanti anni Jeff Bridges è stato considerato un pessimo attore dagli stessi che non hanno perso un secondo per innalzarlo al rango di interprete immenso per Il grande Lebowski? Molti. Troppi. Jeff Bridges è stato per decenni l’uomo dimenticato della sua generazione. Un attore immediatamente classico, e quindi inevitabilmente invisibile, che fatalmente finiva sempre al di fuori dei radar della cinefilia ufficiale.
Figlio di Lloyd Bridges, l’uomo che sceglie sempre il giorno sbagliato per smettere di fumare, fratello di Beau – il padre di Earl e Randy, per intenderci – il nome di Jeff è legato a una stagione irripetibile del cinema statunitense. Hollywood, sopravvissuta alla fine dello studio system tradizionale e all’assalto di produzioni innovative e indipendenti come Easy Rider e La notte dei morti viventi, mentre un film come 2001: odissea nello spazio riscriveva le leggi del blockbuster, si riorganizzava avendo compreso che nulla sarebbe più stato come prima. Jeff Bridges, troppo bello per essere vero, troppo “all-american”, nel panorama del cinema statunitense che cambia, non sembra possedere, per esempio, le qualità anti-establishment di un Peter Fonda, un altro figlio d’arte che lascia un profondissimo segno generazionale nel panorama hollywoodiano della fine degli anni Sessanta. Avendo iniziato da bambino a muoversi fra cinema e televisione, si ritrova al crocevia della nuova Hollywood quasi per caso e non come vocazione. Quando nel 1971 Peter Bogdanovich gli affida il ruolo di Duane Jackson in L’ultimo spettacolo, Jeff Bridges vanta una filmografia già molto nutrita. In mezzo a un cast che comprende Ben Johnson, Cybill Shepard, Timothy Bottoms, Cloris Leachman, Ellen Burstyn ed Eileen Brennan, senza contare una straordinaria galleria di caratteristi che solo l’acume classicista di Bogdanovich poteva ricordare e scegliere, Bridges sembra quasi soccombere. Eppure si capisce benissimo, non solo rivedendo il film, che l’attore è un fondista. Uno che procede con un passo tutto suo e non sgomita per farsi notare.
Infatti l’anno dopo lo ritroviamo in Città amara di John Huston e in Cattive compagnie di Robert Benton (un regista sul quale prima o poi si dovrebbe tornare…) e, l’anno successivo ancora, ne La terra si tinse di rosso di Richard C. Serafian. Prima di passare al servizio di Michael Cimino nel 1974 per Una calibro 20 per lo specialista, Bridges lavora con mestieranti come Lamont Johnson e maverick come John Frankenheimer e Frank Perry. E mentre intorno a lui infuria la Nuova Hollywood, con attori come John Cazale, Al Pacino, Robert De Niro, Warren Oates, Jason Miller, Gene Hackman, Robert Duvall, Bruce Dern, Roy Scheider e caratteristi inquietanti come Michael V. Gazzo e Joe Spinell, Jeff Bridges continua a muoversi con passo felpatissimo senza dare troppo nell’occhio.
Al fianco di Clint Eastwood, nell’esordio registico di Cimino, Bridges rielabora la vulnerabilità che aveva già portato alla luce ne L’ultimo spettacolo. Al fianco di esuli dal cinema classico come Eastwood e George Kennedy, Bridges evidenzia una sensualità che inevitabilmente ricorda Sal Mineo e soprattutto l’uso che dell’attore fece John Ford ne Il grande sentiero. Cimino comprende la natura classica di Bridges e lo espone al fuoco freddo della presenza di Eastwood provocando così una reazione chimica che risulta in una complicità fisica e comprensione alchemica veramente degna d’altri tempi. Per intenderci, quella che sempre Ford aveva sperimentato opponendo il fragile Jeffrey Hunter a John Wayne in Sentieri selvaggi o Nicholas Ray che ne I bassifondi di San Francisco affiancava lo sconosciuto John Derek all’affermato e iconico Humphrey Bogart.
Dopo Cimino ritroviamo Jeff Bridges al servizio di registi come Howard Zieff, William Richert e persino John Guillermin nel remake di King Kong voluto da Dino De Laurentiis. Nel 1980 l’attore ritrova Michael Cimino reduce dal successo de Il cacciatore e sull’orlo della catastrofe con I cancelli del cielo, probabilmente l’unico capolavoro degno del genio e della follia di Erich Von Stroheim e di Greed. Jeff Bridges evidenzia ancora una volta aspetti inediti della sua persona, una malinconia crepuscolare che altrove, nelle commedie di Lamont Johnson, per esempio, non vengono alla luce e che nel successivo Alla maniera di Cutter, diretto dall’esule cecoslovacco Ivan Passer, viene ulteriormente alla luce. Noir seminale purtroppo dimenticato da tutti, il film ha il merito di indicare le direttive future del lavoro dell’interprete. Nel 1982 Bridges si fionda in una versione tanto rudimentale quanto affascinante del cyberspazio con Tron di Steven Lisberger e due anni più tardi John Carpenter lo convoca per interpretare il sottovalutato Starman.
Nel 1986, per la regia di Hal Ashby e la sceneggiatura di Oliver Stone, l’attore interpreta il detective alcolizzato Matt Scudder in 8 milioni di modi per morire, probabilmente il miglior noir degli anni Ottanta, anche se il regista fu licenziato subito dopo le riprese e il film completato dagli executive dello studio PSO Entertainment. In preda a uno stupore alcolico da manuale, Bridges barcolla sotto il sole e offre probabilmente una delle interpretazioni più magistrali degli anni Ottanta. Spetta a Francis Ford Coppola il merito di offrirgli un ruolo in Tucker che in altri tempi un regista come Frank Capra avrebbe offerto a James Stewart. Bridges, ancora una volta, pur cambiando registro, dimostra come la composizione del ruolo possa passare attraverso pochissimi sfruttando al meglio proprio l’aspetto adolescenziale che sembrava frenarne la carriera agli esordi. All’alba degli anni Novanta, l’attore ritrova Bogdanovich per il commovente e incompreso Texasville, il seguito di L’ultimo spettacolo. Nel 1995 segna un altro apice della carriera al fianco di Walter Hill con l’immenso Wild Bill, strepitoso ritratto di pistolero al tramonto che celebra l’epopea settantesca del western “stracci&fango”. Il grande Lebowski dei fratelli Coen giunge tre anni dopo e la sua interpretazione fornisce la matrice alla caratterizzazione di Bad Blake di Crazy Heart, film che si salva solo grazie alla presenza sua e di Robert Duvall, per le musiche curate da T-Bone Burnett e la dedica al leggendario musicista country Stephen Bruton (che, tra le altre cose, appare anche ne I cancelli del cielo nella Heaven’s Gate Band e firma parte dei brani dell’album Easter Island di Kris Kristofferson).
Così se Bruce Dern può vantarsi di essere l’unico attore della sua generazione ad avere ucciso John Wayne (accade ne I cowboys di Mark Rydell), Jeff Bridges, ritrovando i Coen, è l’unico che può vantarsi di riprendere l’iconico ruolo de Il Grinta (ossia True Grit) che fece la gloria autunnale dell’anziano Duke. Conferma migliore del talento classicista di Jeff Bridges non ce ne potrebbe essere.
(Giona A. Nazzaro)