Non siamo forti in storia, noi italiani. Meglio ripassare. Noi credevamo di Mario Martone racconta il Risorgimento come a scuola non ce lo raccontavano, concentra in tre ore e mezzo di film quattro decenni del nostro Ottocento, dai primi moti meridionali del 1820 fino alla repressione del brigantaggio e a Garibaldi fermato e ferito in Aspromonte dai soldati sabaudi, nel 1862. La scelta che Martone e il suo cosceneggiatore Giancarlo De Cataldo privilegiano, nel trasporre il libro omonimo di Anna Banti (il cui nonno fu cospiratore e patriota), è di sfrondare e togliere, di non mostrare battaglie, gesti eroici, epici assalti: scelgono di rappresentare una lunga guerra di liberazione come un sordo procedere di tentativo fallito in sforzo inutile, di obiettivo non raggiunto in traguardo che rimane utopistico.
Molti dei protagonisti più in vista del nostro Risorgimento non compaiono nel film. C’è il Crispi repubblicano e rivoltoso, poi monarchico e colonialista: è lui a pronunciare nel simbolicamente vuoto Parlamento torinese il discorso che mette fine alle illusioni. C’è un Giuseppe Mazzini votato all’azione, anche violenta. Vengono nominati ma non li vediamo Cavour e Garibaldi, intravisto solo di notte e da lontano. In primo piano sono invece tre ragazzi del Sud, del Cilento, che decidono, insieme, di affiliarsi alla Giovine Italia mazziniana. Salvatore è figlio del popolo. Domenico, l’idealista, e Salvatore, il cospiratore, sono di origine nobiliare. Vanno a Parigi a cercare fondi, tentano di uccidere Carlo Alberto, falliscono, si dividono e ognuno incontrerà il proprio destino.
Le intenzioni di Martone, lo si capisce subito, sono ben lontane da una visione apologetica e retoricamente gonfia, così come da una puntigliosa e completa ricostruzione storica. Martone non attraversa quarant’anni di storia patria in tutti i passaggi e risvolti: procede piuttosto per lampi, momenti, situazioni e personaggi, l’utopia ugualitaria della contessa di Belgiojoso, le prigioni borboniche, l’attentato a Napoleone III, la repressione delle rivolte contadine che i piemontesi occultano dietro il falso nome di “brigantaggio”. Martone vuole soprattutto porsi e porre delle domande: su cosa sia stato il Risorgimento, quali fossero gli intendimenti e le speranze di chi lo iniziò, di chi lo volle fermamente e ferocemente, di chi poi fu travolto dall’entrata in campo di altri che avevano davvero il potere e la forza per deviare il corso della lotta in diversa direzione. Martone si chiede in che cosa quella rivoluzione fallita abbia poi condizionato e ancora condizioni la storia successiva del nostro paese. È guardando a quel passato, dice chiaramente il film, che si può capire l’Italia di oggi, capire perché la nostra Unità non sia mai stata portata a compimento, perché non siamo ancora un paese che sa di essere tale e vuole esserlo, uno e unito, anche nelle differenze, un paese che vuole portare a termine la sua costruzione.
La forza ruvida e la bellezza silenziosa del film stanno nel modo con cui tutto questo viene detto. Certo, anche con i discorsi, le discussioni accese e gli scontri: ma soprattutto con le immagini. Con un modo di far cinema complesso e chiaro al tempo stesso. Complesso perché non superficiale. Chiaro perché quel che ha da dire, sul rapporto tra quel passato e il nostro presente, lo dice esplicitamente con effetti in alcuni casi davvero stranianti, che lasciano sorpresi e sospesi. I condannati alla ghigliottina vengono portati al patibolo su delle scale di griglia metallica che sono le nostre scale, di oggi. E in certi panorami del Sud (la questione meridionale, mai risolta!) si vedono, come una incongrua e perfetta apparizione, quelle case con i pilastri di cemento armato che si drizzano verso l’alto e non arrivano a nessun soffitto, a nessun tetto. Sta qui la sostanza del film: il percorso risorgimentale e i decenni che si sono poi succeduti non hanno portato a termine la costruzione del paese. Il nostro è un paese cui mancano dei pezzi. È una casa cominciata male e mai finita. Un paese che non sa come raggiungere i suoi obiettivi.
Non è un film didattico, questo di Martone. Non è il Rossellini delle ricostruzioni storiche. Non è neppure, sul versante opposto, il Visconti melodrammatico del risorgimentale Senso. Noi credevamo è un film accorato e lucido, senza concessioni o sbavature. Sta dalla parte di chi voleva fare l’Italia e farla in una certa maniera, unita, libera, repubblicana. Farla per tutti i cittadini. Loro così credevano. E invece si è visto togliere la storia di mano, portar via un sogno. Anche per colpe proprie: per la italianissima, geneticamente italiana, incapacità di restare uniti, per la spinta inarrestabile a dividersi, a diventare, da amici che si era, avversari e nemici. Il Risorgimento, per Martone, è la nostra storia come poi si ripeterà ancora e ancora. Storia di slanci e cadute. Nel suo essere una ricostruzione del passato e una visione dell’oggi, Noi credevamo risulta essere una lezione (inutile?) per il futuro.
(Bruno Fornara)