Intervista a Sylvain Chomet
a cura di Roberto Pisoni
Tutto nasce da una sceneggiatura mai realizzata di Jacques Tati. Il grande comico francese aveva cominciato a pensare a L’illusionista già nel 1953. Dopo aver realizzato Le vacanze di Monsieur Hulot, colpito dalla visione di Luci della ribalta di Charlie Chaplin, gli era venuta voglia di rendere omaggio ai suoi anni di formazione nel music-hall. Poi Tati aveva diretto Mio zio (1958), preparato uno spettacolo all’Olympia e finalmente concluso la sceneggiatura.
Ma le enormi difficoltà incontrate negli ultimi anni di carriera avevano confinato L’illusionista allo stato embrionale di progetto. Almeno fino all’arrivo di Sylvain Chomet, disegnatore di fumetti, autore di un cortometraggio d’animazione nominato agli Oscar, con la passione per le illustrazioni di Albert Dubout e per la Francia del realismo poetico. Chomet aveva dichiarato apertamente la propria ammirazione per Tati in una gustosa scena di Appuntamento a Belleville (2003), il suo primo lungometraggio animato diventato un successo internazionale, quando le “Triplettes”, guardando la televisione, venivano rapite dalle gag di Giorno di festa. Il tocco nostalgico di Chomet e l’omaggio affettuoso hanno convinto Sophie Tatischeff, figlia di Jacques, che un film d’animazione poteva essere la sola possibilità di ridare vita a quella vecchia storia paterna.
L’Illusionista racconta il crepuscolo di un artista di music-hall, la cui carriera è minacciata dalla stanchezza, dall’età e dall’esplosione del rock, i cui concerti sempre più spettacolari e affollati relegano acrobati, prestigiatori e altri funamboli al rango di anticaglie. Il protagonista vive un improvviso sussulto di vitalità grazie all’incontro con una bambina, Alice, che da ultima delle sua spettatrici entusiaste, diventa una specie di figlia adottiva. C’è, come detto, una forte componente autobiografica nella sceneggiatura che Chomet ha reso ancor più esplicita tratteggiando il protagonista con i tratti inconfondibili di Monsieur Hulot, anzi di Jacques Tatischeff in persona. Se da un punto di vista puramente tecnico L’Illusionista è nettamente superiore ad Appuntamento a Belleville – il tratto è meno manierato e passatista, più aereo, elegante e fluido – il successo del film sta altrove: Chomet è riuscito a riprodurre, con grazia e naturalezza, il concentrato unico di poesia e di humour, di goffaggine e malinconia che era proprio dell’universo Tati.
Quando Sophie Tatischeff l’ha scelta per realizzare la sceneggiatura di L’illusionista, non era spaventato dal confronto con Tati?
No, proprio per questa ragione. Quando ho saputo che Sophie aveva apprezzato il gusto e lo stile grafico di Appuntamento a Belleville e aveva suggerito al mio produttore la sceneggiatura perché pensava che io potessi trarne un buon film d’animazione, mi sono sentito accettato, quasi investito dalla famiglia a intraprendere il lavoro. E non ho mai avvertito l’ombra di Tati come culturalmente ingombrante, perché conoscevo molto bene il suo cinema, i suoi film fanno parte della mia vita e la sua visione delle cose mi è vicina. Il vero rammarico è che Sophie non abbia potuto vedere nemmeno un frame del film, è morta subito dopo la sua proposta. Sono sicuro che avrebbe riconosciuto lo spirito di ammirazione per suo padre con cui tutti hanno lavorato a L’Illusionista.
Immagino abbia rivisto i suoi film, cosa le interessava restituire del suo cinema e del suo mondo?
Ovviamente li ho rivisti e sono rimasto molto colpito dal suo stile molto essenziale. Tati non è nato con la macchina da presa in mano, non aveva il cinema nel sangue, era essenzialmente un artista “musicale”, una specie di ballerino. Così aveva scelto uno stile semplicissimo, girava per scene. Trovava una posizione ideale e non muoveva mai la macchina, utilizzava dei totali e solo in rarissime circostanze il primo piano. La macchina da presa nei suoi film non racconta mai una storia, ma documenta una storia che le accade davanti. Dirò di più, siccome Tati era un omone, spesso il punto di vista scelto è quello del suo sguardo, più o meno ad un metro e ottanta di altezza, inclinato verso il basso. Ma nonostante questa fissità, tutto nel frame ha un’incredibile qualità musicale, danza. Se dovessi scegliere una sola qualità del suo cinema, vorrei poter restituire questa leggerezza divina.
Stupisce nel film la capacità di narrare una storia piena di snodi e di emozioni con un ricorso ridottissimo ai dialoghi. Come in Tati, però, la colonna “dei suoni” è fondamentale.
Mi piace quando dei personaggi animati vivono ed esprimono delle cose semplicemente attraverso i loro movimenti. Trovo che la voce sia piuttosto inessenziale in un film d’animazione. Non il suono ovviamente, che invece è fondamentale, ma la voce. La controindicazione è che bisogna centrare sempre l’essenza della scena, soprattutto in un film in cui non ci sono primi piani e le parole scarseggiano. Questo complica il lavoro, ma è divertente fare delle cose complicate.
Rispetto ad Appuntamento a Belleville, trovo L’illusionista più maturo sia in termini di tecnica che di regia. In cosa pensa di esser migliorato rispetto al suo primo film?
Mi sono lasciato alle spalle l’universo barocco, caotico e pazzoide di Appuntamento a Belleville, per andare con maggiore sobrietà e purezza verso il mondo di Tati. Ho girato inquadrature molto lunghe e quindi più difficili, ho curato i dettagli degli ambienti, soprattutto gli esterni di Edimburgo, con maggiore esperienza e consapevolezza, ho ridotto le citazioni. Diciamo che ora sono meno preoccupato di stupire lo spettatore e più attento allo spazio e al tempo delle emozioni.
L’animazione americana ha ormai eletto il 3D come l’unica tecnica in grado di conquistare il mercato. Quale spazio di sopravvivenza rimane all’animazione tradizionale?
Molti animatori, soprattutto disegnatori, sono terrorizzati perché gli executive della Disney/Pixar sostengono che il 2D è destinato a morire e da qui in avanti tutto sarà girato in 3D. Sono le tipiche cazzate sparate da chi non capisce niente. Mi pare assurdo, è come dire che il futuro del Tour de France sono le gare di Formula 1. L’illusionista non assomiglia ai film americani cui il pubblico è abituato. Non è una montagna russa ma avrà lo stesso il suo spazio e la sua distribuzione. A differenza dei film più commerciali è un viaggio personale. Lo spettatore è importante quanto il regista del film. Non credo sia un genere destinato all’estinzione.