Nel centocinquantenario dell’unità d’Italia inevitabile ricordare i due film maggiori dedicati al Risorgimento, entrambi di Visconti e poco in linea con la storia ufficiale . In Senso si parla della terza guerra di indipendenza, forse la meno gloriosa delle quattro, e la si racconta almeno in parte dal punto di vista degli austriaci e degli austriacanti , mentre nel Gattopardo la spedizione dei Mille, con un epilogo dedicato ai fatti di Aspromonte, è commentata da un principe siciliano, che guarda ai tempi nuovi con totale scetticismo.
Entrambi i film si concludono in modo ben poco consolatorio con la fucilazione dei disertori : nel primo un tenente austriaco che si è fatto esonerare dal servizio attivo corrompendo i medici, nel secondo alcuni soldati dell’esercito sabaudo passati nelle fila dei garibaldini (la scena si svolge fuori campo, come a indicare che si tratta di un fatto scontato: sentiamo le scarica di fucileria mentre i parenti del principe rientrano a casa in carrozza).
Affiora dunque anche qui, di scorcio, l’idea gramsciana del Risorgimento come rivoluzione mancata che nel primo film era affidata alla monolitica figura del marchese Ussoni ( Massimo Girotti), figura diminuita dagli interventi della censura (1), e di cui comunque il regista non era soddisfatto: non mi sono mai venuti bene i personaggi positivi, ha detto più o meno. Protagonisti di Senso sono appunto due antieroi, lei la contessa Livia Serpieri (Alida Valli), dominata da una passione travolgente che la spinge a tradire il marito, la patria e lo stesso amante, lui il tenente Franz Mahler (Farley Granger) che unisce cinismo, alterigia e totale mancanza di dignità.
Si tratta evidentemente di un melodramma, cioè di una vicenda a forte contenuto passionale e ad alta intensità emotiva, articolata in questo caso su un concatenarsi di tradimenti che culmina nel tragico finale quando Livia, tradita e insultata dal suo tenente, lo denuncia al comando militare provocandone la fucilazione. Un amore il loro che è solo inganno, dipendenza, abiezione, pulsione di morte. Intorno una guerra fatta di vittorie inutili e di ideali traditi, poco edificante contrappunto alla vicenda dei due amanti maledetti.
Insieme al contenuto scarsamente patriottico fu lo stile calligrafico a infiammare il dibattito quando il film fu presentato alla mostra di Venezia. Tutto è in costume , anche i dialoghi, compresi i versi di Heine declamati da Franz e le sue precoci profezie sulla finis Austriae, tutto è teatrale. E a volte gli attori sembrano in maschera: lei con la veletta, lui con espressioni infantili e cattive. E ancora profusione di specchi, ombre, tende, cornici, angolazioni dall’alto o dal basso , scorci inattesi (la porta da cui si intravede l’appartamento del comandante austriaco), in un moltiplicarsi di prospettive che rende tutto più stilizzato e più instabile, più vivo, come si addice a un melodramma. (Va ricordato, per il gusto di giocare sui confini tra vita e teatro, il precedente della Carrozza d’oro di Renoir, che fu maestro di Visconti).
E gli interventi musicali, dalla Sinfonia n.7 di Bruckner, almeno in un caso sembrano eseguiti dal vivo, come a teatro: quando il marito segue la contessa si teme una scena madre e la musica enfatizza il sospetto mentre poi si rivela un falso allarme, è come se il musicista non sapesse, non fosse stato messo al corrente del contenuto ben poco drammatico della situazione (in effetti all’appuntamento misterioso non c’è l’amante ma Ussoni con gli altri patrioti). Mentre più tardi, quando Franz subdolamente induce Livia a pagargli l’esonero, l’esplosione musicale sul primo piano di lei ci fa intuire che Livia ha deciso di dare a Franz il denaro dei patrioti: è un po’ come se il musicista avesse capito le intenzioni della contessa prima del regista.
Non è escluso che le stesse debolezze del racconto (lei troppo succube, lui troppo cinico) si convertano in pregi , poichè non fanno che esasperare il contrasto tra l’eleganza dello stile e la miseria morale dei personaggi. Ed è questo che rende Senso il più manieristico e il più crudele tra i melodrammi di Visconti (probabilmente il suo capolavoro).
Nel Gattopardo, tutto l’opposto di un melodramma, prevalgono il disincanto e una certa dolcezza del vivere, del cui segreto è unico depositario il principe di Salina ( Burt Lancaster), con la sua ironia e il suo vitalismo: le visite all’amante a Palermo, l’affetto per il nipote in cui rivede se stesso giovane, i presagi della morte, il senso del declino di tutta la sua casta ( la celebre battuta<<Noi fummo i gattopardi, i leoni…>>).
Anche qui la storia rimane ai margini della vicenda privata , filtrata dallo sguardo del protagonista, e il solo episodio da cui il principe è assente, la battaglia di Palermo, risulta superfluo. Bastano le notizie e le visite che arrivano al palazzo per intuire la situazione politica: il nipote e i suoi amici che prima si presentano in camicia rossa e poi in uniforme sabauda, il ballo dove intervengono diversi ufficiali; si direbbe che anche il ritratto dei visitatori sia eseguito dal principe stesso, a cominciare dall’arrampicatore sociale interpretato da Paolo Stoppa, che sfiora la macchietta. Le immagini sono meno studiate, meno preziose che nell’altro film; qui le proporzioni falsate, il gusto manieristico del rituale sono nei tempi abnormi consacrati al ballo, che occupa quasi un terzo della durata (grande idea questa di chiudere la storia in anticipo sul romanzo che proseguiva fino alla morte del principe); è il momento in cui risalta meglio il pessimismo (aristocratico e marxista) di Visconti. Non soltanto il Risorgimento come rivoluzione mancata, ma il Risorgimento come irrilevante, almeno per la Sicilia, solo un cambio di uniforme nel nipote , e un frac su misura per il parvenu.
(1) In una scena tagliata un ufficiale comunicava a Ussoni il rifiuto del comando di far partecipare i volontari alla battaglia di Custoza (<< L’esercito regolare basterà alla patria>>)
(Oreste De Fornari)