Per certi versi la carriera di David Fincher assomiglia a quella di rock band degli anni Settanta. Prima dell’avvento della rete una band si rodava normalmente nell’arco dei primi tre album, fatti uscire magari a sei mesi di distanza gli uni dagli altri. Poi l’album doppio live di rito decreteva, più o meno definitivamente, se la band era fatta per durare o meno. Ai Kiss è andata così. Ai Thin Lizzy sono stati necessari cinque album prima di decollare e gli stessi Aerosmith sono diventati enormi solo nell’arco dei canonici primi tre dischi prima di sfondare definitivamente con Toys In the Attic.
Ed è proprio con un videoclip per gli Aerosmith (Janie’s Got A Gun) che David Fincher si fa notare per la prima volta anche se ne aveva già all’attivo almeno una quarantina realizzati per gente del calibro di Madonna e Sting. Come dire che a Fincher iniziando a fare cinema non mancava certo il senso dell’immagine efficace e del montaggio veloce. Forse gli mancava il resto. Infatti Alien 3, il suo esordio, è funestato da incomprensioni sul set. Il neoregista non ha ancora imparato l’arte di come si impone la propria visione e volontà nei confronti di un set popolato da un centinaio di persone. “Credo che il set di un film sia una dittatura fascista. Devi andare sul set sapendo ciò che vuoi fare perché lo devi comunicare a 90 persone e deve essere convincente. Altrimenti, quando iniziano a farti delle domande, il cavallo ti può scappare via tra le gambe e il cavallo è molto più grande di te”. Nonostante tutto, dal disastro produttivo di Alien 3 si salva solo Fincher, il cui sguardo eccentrico buca comunque lo schermo. E infatti, tornando alla similitudine rock, David Fincher con il successivo Se7en dimostra che la macchina da presa lui la suona benissimo. Accolto con un entusiasmo unanimistico dalla critica, Se7en è poco più di un thrilleraccio, ma la fotografia di Darius Khondij confonde le idee a tutti. I filtri, le gelatine, gli obiettivi e le ombre del immaginifico direttore della fotografia utilizzato anche da Bernardo Bertolucci vengono elevati al rango di opera epocale. Il talento c’è, come pure un’evidente acredine d’affermazione. Il successivo The Game – Nessuna regola è così sbagliato che fa quasi tenerezza (e su un Film Comment di qualche tempo fa un critico ammetteva che oggi il film gli piaceva “quasi”…). A questo punto la situazione è polarizzata quanto basta. Gli estimatori di Fincher difendono a spada tratta, gli altri minimizzano. A riattivare l’interesse sul regista ci pensa Fight Club, opera visivamente sontuosa e a tratti genuinamente inquietante che ancora una volta evidenzia come il regista sia il primo a innamorarsi del proprio tronitruante virtuosismo calligrafico. A insinuare il dubbio che probabilmente s’era stati troppo severi con David Fincher, ci pensa John Carpenter il quale dichiara di amare molto Fight Club. Ma mentre ci si arrovella su Fincher, Panic Room sembra sgomberare definitivamente il campo dagli equivoci: solita maestria formale ma poco altro a quanto pare. Poi Fincher si ferma. Rispetto al ritmo biennale con il quale inanellava i suoi film, ci vogliono ben cinque anni prima di vedere Zodiac. E, sorpresa!, David Fincher è un altro cineasta. O meglio: sembra finalmente avere messo a fuoco le sue potenzialità, rinunciando al fuoco di fila degli effetti gratuiti mettendo addirittura in rilievo una neoclassicità potente che la fotografia dell’eccellente Harris Savides esalta. Nel rievocare le gesta del Killer dello Zodiaco, Fincher crea un thriller ambient retto da interpretazioni di precisione chirurgica e lavorando al meglio con la dimensione degli effetti digitali. Lavorando in sottrazione e aspirando via ogni possibile tentazione effettistica, Fincher realizza un’opera notevole che di fatto riapre la sua pratica. “La gente dice che si sono milioni di modi per girare una scena, ma non penso sia così. Penso che ce ne siano due. E l’altra è sbagliata”. Con Zodiac Fincher firma il film che dimostra, tornando alla similitudine rock, che il turnista prodigioso, è anche un musicista raffinato e che al momento opportuno dimostra di comprendere il valore che una nota in meno può apportare a una canzone. Curiosamente per realizzare il suo film successivo, Il curioso caso di Benjamin Button, Fincher impiega poco più di un anno. Struggente e bizzarro e folle intreccio di horror, melodramma e riflessione filosofica, Benjamin Button è la dimostrazione che Fincher è diventato un regista adulto. “Non sai cosa significa dirigere un film sino a che il sole non tramonta e tu devi girare ancora cinque scene, sapendo che ne girerai solo due”. Benjamin Button è l’album doppio che consacra Fincher e che ti fa ammettere di buon grado che sotto il fuoco di fila degli effetti covava un ottimo e appassionante regista. D’altronde dai numerosi trailer che circolano in rete, anche il prossimo The Social Network sembra potenzialmente proseguire la striscia di risulti positivi conseguita da David Fincher. “Come regista dipende tutto da come gestisci l’informazione in modo tale che il pubblico resti con te quando deve restare con te, stia dietro di te quando deve stare dietro di te e stia davanti a te quando deve stare davanti a te”.
(Giona A. Nazzaro)