Anche i ricchi piangono
Il quarto lungometraggio della ormai quarantenne Sofia Coppola ritrova i ritmi lenti e le tonalità soffuse di Lost in Transition e culmina drammaticamente in due singhiozzi: quello della figlia (la fresca Elle Fenning, sorella minore di Dakota) che piange la propria sorte di fanciulla cresciuta nel lusso, ma troppo sovente lasciata sola dai genitori separati; e quello del padre (l’appropriato Stephen Dorff, già notato nell’horror Non aprite quel cancello e accanto a Morgan Freeman in La forza del singolo) che, nel prefinale, scoppia in lacrime sulla sua Ferrari nera e cerca conforto telefonico dalla ex-moglie, la quale sa però suggerirgli solo, con perfida ironia, di darsi al volontariato.
Che cosa hanno da piangere questi due protagonisti che abitano in un appartamento del celeberrimo Chateau Marmont di Los Angeles, viaggiano in Ferrari o in elicottero, vengono ospitati nella più lussuosa suite del milanese hotel Principe e Savoia, vincono spudoratamente a Las Vegas e sono circondati da belle ragazze sempre disponibili (lui) o godono (lei) di privilegi – vestiti, trucco, viaggi, gelato a letto – non certo alla portata di tutte le undicenni?
Anche i ricchi piangono, sembra dirci con evidente tentazione autobiografica la Coppola; ma, a ben vedere, questa è solo l’apparenza patetica e melodrammatica di un film che poi, di fatto, non nasconde la propria ambizione autoriale e vuole proporsi quale metafora universale dell’esistenza. Comunque la si prenda, la si ami o la si detesti, Somewhere è con tutta evidenza un’opera d’autore e la storia che racconta esiste interamente nella sua forma e nelle sue scelte stilistiche, le quali hanno come caratteristiche fondamentali le lunghe inquadrature, i piani-sequenza mossi solo da lentissimi zoom in avanti o indietro, i tagli di montaggio che negano ogni drammatizzazione interna degli avvenimenti. Creano cioè un mondo sospeso. Non che in Somewhere non accada nulla o non ci siano anche alcune interessanti intuizioni cinematografiche, ma con queste scelte stilistiche il tema centrale del film diventa inesorabilmente il vuoto, la mancanza di senso, la solitudine di personaggi che agiscono come sonnambuli. Il racconto si frantuma così nel collage di tessere di un mosaico stilistico-esistenziale, apparentemente senza “necessità”: una macchina che esce ed entra nella inquadratura fissa; la lap dance di due gemelline professioniste dell’intrattenimento; una partita a video-game e un’altra a dadi, anche un addormentarsi tra le cosce di una ragazza frettolosamente rimorchiata a una festa.
Sequenza dopo sequenza, Somewhere ribadisce anche il tema dello spaesamento cinematografico. Il classico è finito e il moderno non c’è ancora. Questa è diventata Hollywood e questa è stata la mia vita sembra voler suggerire ogni momento Sofia Coppola. C’è proprio da piangere. Meglio allora piantare tutto e andarsene, guardare altrove, come ostenta il suo film quando rimastica modelli derivanti dalla Nouvelle Vague francese, o abbandonare la Ferrari ai margini della strada per proseguire a piedi, come fa infine il suo protagonista: senza però domandarsi mai (per rimanere nella dichiarata metafora autobiografica) perché quando andava in Ferrari e lavorava a Hollywood papà
Francis riuscisse a fare film molto più belli di quelli che ha fatto poi quando ha scelto di andare a piedi e di diventare un “autore”, proprio
come continua a sognare di essere la figlia Sofia.
(di Aldo Viganò)
SOMEWHERE (ID, U.S.A., 2010)
– Regia e sceneggiatura: Sofia Coppola
– Fotografia: Harris Savides
– Musica: Phoenix
– Scenografia: Anne Ross
– Costumi: Stacey Battat
– Montaggio: Sarah Flack.
– Interpreti: Stephen Dorff (Johnny Marco), Elle Fanning (Cleo), Chris Pontius (Sammy), Laura Chiatti (la ragazza italiana).
– Distribuzione: Medusa Film
– Durata: un’ora e 38 minuti