Xavier Beauvois è un cineasta poco frequentato e poco amato dalla critica cinematografica italiana, anche da quella più accorta.
Aderente a un gusto muscolare e problematico, che può essere sintetizzato al meglio nell’ottimo N’oublie pas que tu vas mourir, Beauvois esprime un gusto che se da un lato può essere considerato estremamente cinephile…
Xavier Beauvois è un cineasta poco frequentato e poco amato dalla critica cinematografica italiana, anche da quella più accorta.
Aderente a un gusto muscolare e problematico, che può essere sintetizzato al meglio nell’ottimo N’oublie pas que tu vas mourir, Beauvois esprime un gusto che se da un lato può essere considerato estremamente cinephile, dall’altro s’ancora a un sentire crudo e diretto. È in questa sua apparente mancanza di eleganza che va ricercata la forza e la potenza di Beauvois, assimilabile per certe pulsioni e violenze a Bruno Dumont se non fosse che i due sono diametralmente all’opposto ideologicamente.
Beauvois, inevitabilmente, si fa portatore di uno spiritualismo primordiale, aconfessionale, tipicamente francese che s’incarna soprattutto nell’aderenza ai corpi e a certi paesaggi brulli e ostili del nord della Francia. Pulsa nel suo cinema una religiosità animale immediata, evidenziata nel calvario di N’oublie pas que tu vas mourir, cui è negato però l’abbraccio con il trascendente. Beauvois, come Maurice Pialat e, a tratti, al contrario di Dumont, resta al di qua, nel mondo.
Des hommes et des dieux (ossia di uomini e dei) rievoca l’eccidio di un gruppo di monaci cistercensi francesi in Maghreb per mano di un
gruppo islamico fondamentalista. La materia, evidentemente, è di quelle a rischio demagogia o, peggio, propaganda. Eppure Beauvois riesce
nell’impresa di realizzare un film che rivela un avanzamento del proprio fare cinema, conservando intatta la violenza che gli è propria in immagini di rara potenza. Beauvois sembra tornare al John Ford di Missione in Manciuria. Laddove il film fordiano era un sublime capolavoro di cinema mentale nel quale affioravano isterie e pulsioni rimosse, mettendo in rilievo la fragilità degli assediati, Beauvois permette ai suoi protagonisti di interagire costantemente con l’esterno. Evidenzia il rapporto che i monaci intrattengono con il resto della comunità e li mostra completamente calati nella vita del villaggio che circonda il monastero.
Gli bastano pochi movimenti di macchina per evidenziare come i corpi dei religiosi siano intrecciati nel tessuto della vita comunitaria del
villaggio. Posizionando il proprio sguardo a ridosso degli uomini che ha deciso di seguire, ne mostra l’interagire con il resto del mondo alla
stregua di un lavoro che necessita verifiche continue.
Strategia questa profondamente commovente nel senso che essa non solo si muove insieme ai corpi all’interno dell’inquadratura,
ma permette altresì allo sguardo di viverli come in presa diretta evocando una sorta di miracolo della presenza.
Beauvois erode i margini della sceneggiatura per ampliare il raggio d’azione dell’immagine.
Le inquadrature restano sempre ad altezza degli occhi. I corpi sono colti sempre nella loro vulnerabilità e solitudine. Raramente le preghiere al cinema hanno posseduto la forza che hanno nel film di Beauvois, perché percepiamo costantemente la solitudine dell’uomo che prega. L’individuo si colloca nel mondo come uomo che prega e questo determina la sua forza e la sua irrimediabile solitudine. Come una lotta vana, la preghiera nel film di Beauvois assume il carattere di un inutile eroismo che invano altri autori, dichiaratamente religiosi, hanno evocato in forme altrettanto partecipi e convincenti formalmente.
Non a caso una delle sequenze più alte del film riguarda uno dei momenti di preghiera collettiva, che resta fuoricampo, mentre da sinistra
a destra dell’immagine, con fragore assordante, si muove un elicottero enorme e minaccioso. I materiali della realtà della guerra sono messi sullo stesso piano degli strumenti della fede con un’esemplarità cinematografica di straordinaria potenza.
Questa modalità di evitare le banalità ideologiche è una delle qualità più interessanti di Beauvois.
Le cose parlano per se stesse. Il cineasta le mette in campo, ma sono esse, e solo esse, a prendere la parola. I gesti degli uomini sono lluminati in relazione alla voce delle cose.
In questo senso i momenti in cui il cast al completo canta e prega si segnalano come straordinari momenti di riflessione sulla realizzazione
del film stesso: la musica, elemento federativo, rivela il funzionamento del film. Questo procedimento è sviluppato sino alle estreme conseguenze nel momento in cui Michel Lonsdale inserisce nel mangianastri della mensa del convento un’esecuzione del Lago dei cigni di Tchaikovskji.
Rischiando di distruggere tutto quanto evocato e ottenuto sino a quel momento, Beauvois mette in campo non solo una composizione che
al cinema è stata usata e abusata, ma utilizza (probabilmente) anche un’interpretazione non particolarmente brillante, effettistica.
Questa scelta, apparentemente facile, esalta l’umanità dei protagonisti che in questa musica, abusata sino a essere stata ridotta a un inutilizzabile luogo comune, ritrovano la loro fede nella comunione di Cristo che hanno rischiato di perdere nel confronto con la violenza del mondo e la paura (l’elemento federativo della musica).
Come dire che non conta quanto approssimativa sia l’immagine che unisce i corpi che pregano, è lo sguardo che determina la forza e il valore della preghiera. Riprendendo il proverbio tibetano posto in esergo a Il libro nero di Lawrence Durrell, “quando c’è venerazione manda luce anche un dente di cane”. La teoria dei volti dei religiosi, inquadrati con fissità bressoniana, dalla quale scaturisce solo un’irrinunciabile matericità, anche se evoca il magistero di Dreyer, alla fine non fa altro che riconsegnare i corpi degli uomini al mondo. Si vive e si muore sulla terra.
(di Giona A. Nazzaro)