BELLA EDIZIONE, LA 67ESIMA DELLA MOSTRA DI VENEZIA.
Film tradizionali, personali, stravaganti, meditativi, ludici, sereni, severi, astratti. Gli italiani si sono difesi bene.
L’amore buio di Antonio Capuano, già nelle sale, non era in concorso ma meritava di esserci. La Napoli brutale dei vicoli e la Napoli benestante. Due vite a distanza, di un ragazzo in galera e di una ragazza borghese. Regia forte, personaggi giusti, colori assolati, poi lividi. Emozionanti le immagini conclusive, un semplice campo e un ugualmente semplice controcampo che dicono tante cose. Ascanio Celestini passa dal teatro al cinema con La pecora nera.
Infanzia, giovinezza, età adulta di un uomo che accetta di vivere in manicomio, luogo che per lui è “un condominio di santi”. Film commovente: un matto tranquillo, un amore perduto, una suora che fa le scoregge e il lontano “pianeta dei deficienti”.
Avevamo perso le tracce di Stefano Incerti: Gorbaciof è il ritratto azzeccato del cassiere di un carcere che usa i soldi non suoi per giocare a poker. Protagonista Toni Servillo, con una voglia sulla fronte e rughe sul viso profonde come valloni. Altro autore che riemerge dal silenzio è Pasquale Pozzessere. Malavoglia è una notevole trasposizione del romanzo di Verga nella Sicilia di oggi, con gli immigrati, la musica battente, l’illusione del riscatto, la sfortuna sempre in agguato. Nella miglior tradizione della commedia si inserisce La passione
di Carlo Mazzacurati: si ride e ci si rode per quest’Italia sgangherata, senza più regole. Chissà, però, che davanti a un Cristo qualunque, grasso e sformato (“Oggi anche Cristo sarebbe grasso”), non si possa arrivare a un momento di commozione, come la nostra commedia ha sempre fatto: portarci a ridere di gusto, mostrarci chi siamo e accompagnarci all’intensità della riflessione. Altra nostra tradizione: il film che rilegge la storia. Noi credevamo di Mario Martone dà del Risorgimento una visione sotterranea e crudele, come di una successione di tentativi scoordinati e fallimentari.
Come se l’Italia non riuscisse a nascere, allora come oggi. Si veda quella casa, del Sud di questi nostri anni!, con i pilastri in cemento armato alzati sul vuoto, sul mai-finito della nostra storia. Nessuna concessione all’epopea, niente battaglie, niente patriottismo, nessun eroe.
Film stranieri. Con Somewhere, già nelle sale, Sofia Coppola, leonessa d’oro, sposta la sua ricerca in direzione opposta a Marie Antoinette: da un film troppo pieno di oggetti, vestiti e colori, a questo film sul niente, vuoto come il deserto dove la Ferrari gira e gira, nella prima sequenza. Un attore vive il nulla americano e sperimenta l’orripilante troppo pieno dell’Italietta televisiva. Neppure le ragazze che gli
fanno la lap dance in camera riescono a tenerlo sveglio.
Film audace, in certi momenti quasi sperimentale.
In parallelo a Somewhere andrebbe visto I’m Still Here di Casey Affleck, diario emotivo ed emozionante che segue per un anno intero l’attore (e cognato del regista) Joaquin Phoenix, da quando annuncia il ritiro dal cinema e l’intenzione di darsi al rap. Finirà per perdersi e trascinare con sé il film in una spietata discesa nel buio. Silent Souls di Aleksei Fedorchenko racconta il viaggio di due uomini di etnia merja, una
delle tante, mescolate nell’immensa Russia. Obbediscono a una loro tradizione: portare all’ultima dimora il cadavere di una persona, moglie di uno dei due e amata anche dall’altro. “I corpi delle donne ci portano via la pena”, si dice nel film, e non c’è pena in questo viaggio: c’è la consapevolezza che nella vita si è sfiorata la felicità. Potiche di François Ozon è una commedia farsesca dai toni sbrigliati e scapestrati con
Depardieu e soprattutto con la Deneuve che impara a farsi largo nella società e nella politica. Altro film allegro, con un filo di malinconia, è il greco Attenberg di Athina Rachel Tsangari. Due ragazze: una non sa niente dell’amore, l’altra (che ne sa fin troppo) fa da cicerone alla prima, ballano per strada, si baciano, frequentano ragazzi. Viene in mente la nouvelle vague di una volta.
Altro gran film del concorso, dimenticato dalla giuria, è (titolo non invitante) Post mortem del cileno Pablo Larraín, dove vengono messe a confronto la vita di un piccolo e spietato uomo qualunque, innamorato di una ex ballerina in disarmo, con la ben più terribile
capacità di morte dei militari che soppressero la democrazia di Allende. Come a dire che il potere vero affonda le radici nella voglia di potere e di morte di tanti minimi e ignoti suoi sconosciuti collaboratori.
Essential Killing di Jerzy Skolimovski è la storia di una fuga infinita dall’Afghanistan alle foreste dell’Europa centrale. Un talebano, con la faccia di Vincent Gallo, scappa, viene ripreso, scappa ancora, non molla mai. Film misterioso che, come l’uomo in fuga, sembra non avere altra meta se non il fuggire. Vicino a Skolimowski ci sta bene il film di un altro regista in età, il ceco Jan Svankmajer, maestro di una animazione fatta all’antica, con carta e forbici, che si diverte in Surviving Life a prendere in giro la psicanalisi, a giocare con l’inconscio, a divertirsi con invenzioni e intelligenza. Per ultimo, un film attraente che ci fa orgogliosamente stare dalla parte giusta, contro uno
shogun crudele e infame. Il regista è quel Takashi Miike finora esponente di un horror più che sfrenato.
In 13 Assassins racconta invece, in maniera classica, di un gruppo di samurai che lottano per la libertà.
Viene in mente Kurosawa, tra duelli, agguati e una battaglia finale memorabile. Si può anche godersela al cinema, no?
(di Bruno Fornara)