Germi dimenticato – La posta di D.O.C. Holliday (89)

Ricevo dal mio amico Luciano Vincenzoni, sempre sollecito nel difendere le memorie della sua intensa esistenza, un ritaglio del Messaggero che risale circa ai primi giorni di giugno.

E’ un articolo di Maria Grazia Filippi in cui si fa cenno di una rassegna organizzata dalla Associazione Culturale Mediterraneo, in corso sino al 4 luglio, intitolata “Il cinema italiano al tempo della Dolce Vita “. Al museo di Roma a Trastevere verranno evocati “i miti e le suggestioni di un periodo indimenticabile, capace di rendere la città eterna protagonista del cinema mondiale”.

L’ideatore e direttore artistico della manifestazione, Pier Luigi Manieri, dice di voler rievocare tutto un periodo del cinema italiano “attraverso uno sfaccettato percorso artistico e iconografico”. Dice di aver scelto il periodo degli anni ‘50 e ‘60 e di proporlo per ambiti tematici, che svariano dai kolossal sino “ai capolavori di Monicelli, Risi, Visconti e, ovviamente, Fellini” . Vincenzoni mi fa giustamente osservare che molti e decisivi film italiani degli anni ‘50 e ‘60 diretti da Pietro Germi non sono minimamente evocati. Eppure si tratta di film compresi nei due decenni evocati da Manieri e cioè “In nome della legge” (1949), “Il cammino della speranza” (1950), “Il ferroviere” (1955), “L’uomo di paglia” (1958), “Un maledetto imbroglio” (1959), “Divorzio all’italiana” (1962), “Sedotta e abbandonata” (1964), “Signore e signori” (1965).

Ancora una volta Vincenzoni, fedele alle amicizie ed orgoglioso del suo passato professionale, giustamente deplora che il nome di Germi sia completamente cancellato nelle evocazioni d’epoca segnate da un giornalismo meramente illustrativo. Sembra che il regista genovese sia fondamentalmente assente dalla memoria corrente del nostro cinema del tempo. Eppure molti suoi film non solo evocano tutta un’epoca, ma costituiscono piccoli capolavori di costruzione e di recitazione, sempre impegnati a proporre inattesi volti nuovi per personaggi in certo senso vecchi (si pensi a delle e vere e proprie invenzioni di Germi, a cominciare da Saro Urzì, Camillo Mastrocinque, lo stesso Germi utilizzato
come attore di rilievo in “L’uomo di paglia”, “Il ferroviere” e “Un maledetto imbroglio”, e via svariando in una
continua invenzione del cinema come divismo consacrato ma anche come geniale riscoperta di volti e di umani trasalimenti).

E’ un’omissione di fondo di cui siamo responsabili in tanti, anche e soprattutto a Genova, dove la memoria di Germi è ancor meno custodita che in altri luoghi. Forse il suo rapporto con la città natale era, a tratti, ispido come in fondo era il suo carattere, ma è certo che l’inventiva, la geniale furbizia, il sano populismo, l’ironia tutta italiana, che pervadono la sua opera restano fra i grandi meriti del cinema italiano dall’immediato dopoguerra ( “Il testimone” èdel 1945) sino ai suoi ultimi film, certo meno meritevoli degli altri, ma comunque curiosi per piン di un motivo (“L’immorale” è del 1966, “Serafino” è del 1968, “Le castagne sono buone” è del 1970 e “Alfredo, Alfredo” è del 1972). Germi mor“ nel 1974 a soli 60 anni, ma in certo senso era, per dirla crudelmente, giunto al capolinea: l’Italia rissosa che si stava preparando era la meno adatta a cogliere i disegni dei suoi personaggi, ora proletari ora piccolo e medio borghesi, ma ancora modellati da un’idea ottocentesca del dovere e dei doveri, che l’evoluzione nostrana avrebbe cancellato per sempre nel giro di pochi anni. Ora teneramente casalingo, ora furbescamente libertino, Germi fu il cantore di una moralità del vivere per cui nel cinema di oggi non c’è praticamente più spazio. Quando lui diceva che intendeva rappresentare la gente “con la riga ai pantaloni”, Germi evocava una nazione retta da codici di comportamento in genere molto rigidi: codici che potevano essere infranti ma il cui peso nella coscienza della gente determinava un severo elenco di potenziali peccati.

Inoltre c’era nel cinema di Germi il desiderio e la consapevolezza di riallacciarsi al passato. Un desiderio che spesso è assente nel cinema italiano di maggior impegno, tipico di una nazione le cui radici sembrano fortissime ma spesso in realtà sono fragili. Ce ne accorgiamo adesso che stiamo faticosamente festeggiando i 150 (o più esattamente i 149) anni dell’unità. Il tentativo ufficiale è quello di riallacciarsi ad una organica intenzione celebrativa, mentre tutti sappiamo che l’unità del paese è nata in modo complesso e contraddittorio, soprattutto per merito di un personaggio così complesso e sottile come il Conte di Cavour, che la maggior parte dei nostri connazionali non riesce a capire neppure oggi.

Su questo sfondo l’opera di Germi acquista un particolare risalto, tutta volta a scoprire e riscoprire nobili furbizie e piccoli peccati di un mondo che esisteva poco ai suoi tempi e che di fatto è praticamente scomparso.

(di Claudio G. Fava)

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claudio.g.fava@village.it

Postato in Numero 89, Posta di Claudio G. Fava.

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