Il regista thailandese di “Zio Boonmee” ci spiega il suo film. Che ha conquistato Tim Burton a Cannes e adesso esce nelle sale.
Filmmaker puro, brillantemente versato anche nel documentario e nel video sperimentale, Apichatpong Weerasethakul è la prima vera star del cinema indipendente thailandese.
Dopo la palestra dei cortometraggi, ha conquistato una precoce notorietà internazionale grazie alla critica francese, che lo ha scoperto e sostenuto entusiasticamente fin dal folgorante documentario d’esordio, Mysterious Object at Noon (2000). Il Festival di Cannes ha perfezionato l’opera, premiando i film successivi del regista thailandese e cooptandolo d’autorità nel novero degli autori più stimati e apprezzati della generazione dei quarantenni.
Blissfully Yours (2002), Tropical Malady (2004) e Syndromes and a Century (2006) sono oggetti misteriosi e nuovissimi che hanno sedotto
i cinefili più intransigenti con un esotico pastiche di storie deragliate, accenti pittorici, atmosfere sensuali ed erotiche, poesia panteista e l’ossessione per il “tempo reale”. Un cinema inattuale e avant-garde che quest’anno ha ricevuto la sua consacrazione definitiva con la Palma d’oro conquistata da Lo zio Boonmee che si ricorda delle sue vite precedenti.
Declinazione maggiore di Primitive, un progetto ambizioso che comprende una serie di installazioni sul tema della memoria, Uncle Boonmee è la storia di un uomo prossimo alla fine che chiama a raccolta i vivi e i morti che gli sono stati cari per un ultimo saluto. Affascinante storia di fantasmi e reincarnazioni, il film è soprattutto una riflessione laica sul tema del “confine” tra esistenza ed estinzione.
La semplicità della messa in scena, gli attori non professionisti, i dialoghi inessenziali, la fissità delle inquadrature infondono allo stile del regista thailandese una naïveté soltanto apparente. La grammatica primitiva della regia è al servizio di un mondo simbolico dalla complessa stratificazione figurativa – colori allegorici, fondali teatrali, mostri folkloristici da b-movie -, un universo enigmatico in cui i confini tra le forze terrene e quelle soprannaturali sono indecifrabili, le rêveries dei personaggi non si distinguono dalla realtà delle cose, la natura confonde epoche e stagioni e impasta identità umane, animali e vegetali. Sulla stessa timeline si affollano le vite di Boonmee, digressioni mistiche, un potente autobiografismo, l’ironia infantile e perfino squarci di storia nazionale. Un flusso continuo, una corrente lenta in cui o ci si immerge completamente o si naufraga. La definizione più divertente dell’effetto Weerasethakul, questo stato di incertezza tra la tentazione di abbandonarsi alla malia delle immagini e la sfida a comprenderne le associazioni più segrete, lo avvicina al sogno o alla “visione indotta da un potente allucinogeno”. L’unica cosa cui i suoi film potrebbero assomigliare – scrive Nathan Lee – sono alcuni dipinti di Charles Burchfield e
Henri Rousseau, se li immaginassimo però alle prese “con una sceneggiatura scritta dalla reincarnazione thailandese di Ovidio”.
Uncle Boonmee fa parte di un progetto artistico più ampio, Primitive, sulla memoria e la storia del suo paese. In che mondo il film completa e arricchisce le sue precedenti installazioni?
Il progetto Primitive ha origine dal mio desiderio di recuperare i luoghi e i paesaggi in cui sono cresciuto, nella regione di Nabua, nel nord est del paese. Lì ho girato le immagini per le installazioni che mi hanno consentito di riappropriarmi di un bagaglio di ricordi che pensavo fossero ormai sepolti nel passato.
Mentre visitavo la regione mi sono imbattuto nel villaggio in cui ho poi ambientato Uncle Boonmee. L’idea risale a qualche anno fa, quando un monaco mi regalò un volumetto su un uomo che sosteneva di ricordarsi delle sue vite precedenti. L’idea mi piaceva ma non sapevo
che direzione dargli, avevo bisogno di un legame più personale con la storia. Alla fine ho trasformato Boonmee e l’ho arricchito di esperienze che appartengono alla mia vita. Il film è soprattutto una collezione di ricordi del mio passato, e il protagonista una parte di me che si è reincarnata. Mio padre è morto per una malattia renale, la stessa di cui soffre Boonmee, e la stanza del film richiama gli spazi della mia vecchia casa. Credo che esista un legame fortissimo tra la morte e i ricordi d’infanzia.
Non è vero che quando diventiamo vecchi perdiamo la memoria, le immagini più vivide che ci tornano in mente sono quelle legate ai nostri primi anni di vita. Perché l’infanzia è sempre popolata di fantasie e di fantasmi.
Semplificando le cose e volendo trovare una spiegazione banale, possiamo definire il film una specie di visione finale di Boonmee, come se la vita gli scorresse davanti agli occhi prima di morire?
È una possibilità, certo. Anche se qui dovremmo parlare di molte vite, di reincarnazioni e trasformazioni in diversi stati dell’essere. Mi incuriosisce questo equivoco linguistico per cui parliamo della morte come se potessimo rappresentarla. La morte è un evento che ci rimane
ignoto perché è istantaneo e inafferrabile, quello su cui tutti ci arrovelliamo è la paura della morte, che invece è una presenza costante nelle nostre vite. Ma il film, a mio parere, è soprattutto ossessionato dal cinema e dalla sua scomparsa. Uncle Boonmee è un omaggio a tutto il cinema che ho amato, dalle produzioni commerciali thailandesi ai grandi classici americani ed europei.
In effetti il film è pieno di citazioni, da Marker a Antonioni, da Carpenter a Spielberg come lei ha sorprendentemente suggerito in conferenza stampa…
A volerlo smontare in porzioni, ci troverebbe almeno sei film diversi. Se ha pazienza, le riassumo un mio divertente esercizio di autoanalisi.
Partiamo dall’inizio, un classico dei miei film: un animale perso nella foresta, un lungo shot per la scena della dialisi e poi la sequenza in macchina. Nella seconda bobina invece siamo dalle parti del dramma televisivo thailandese: la recitazione è rigida, non ci sono movimenti di macchina, tutto è molto antiquato, se non fosse per le apparizioni di mostri e di fantasmi. Il terzo episodio invece è un documentario in esterni, nei pressi della fattoria, con qualche concessione al cinema francese, rilassato e sentimentale. La storia della principessa e del pesce gatto è ispirata al dramma in costume thai mentre la quinta bobina ha per protagonista la giungla, ma si tratta di una giungla inematografica, ripresa con l’effetto notte e il filtro blu, e rimanda ai fumetti e ai film d’avventura. Arrivati all’Hotel, siamo ormai alla sesta bobina, il tempo rallenta bruscamente e torniamo di nuovo alla dimensione della realtà, quasi documentaria. Uncle Boonmee è il mio canto funebre per quello che è stato il cinema finora, sono convinto che il mio sarà uno degli ultimi film girati in pellicola. E io non sono ancora pronto al nuovo regno della Red, della Sony e dell’alta definizione.
A lei non piace il racconto lineare e mainstream, quale crede che sia il futuro per un cinema di ricerca e non riconciliato?
Non lo so. Se dovessero morire i Festival, gli spazi pubblici si ridurrebbero ai musei e alle fondazioni forse. Io non credo di fare dei film difficili. I blockbuster americani convenzionali sono molto più complessi per lo spettatore, li costringono a pensare ai nessi, alle cause e
alle ricadute delle azioni. I miei sono infinitamente più semplici, non seguono alcuna logica.
Li concepisco come dei libri per bambini, non hanno bisogno di una struttura linguistica complessa, sono istintivi, näif. Del resto non ho mai preteso di fare dei film intellettuali. Vorrei che i miei film parlassero sempre sempre la lingua dell’infanzia e della fanciullezza.
(a cura di Roberto Pisoni)