Tutto il cinema di Pupi Avati è caratterizzato da un tono esplicitamente autoriale, che lo rende a suo modo inconfondibile. Si tratta di un tono molto personale, ma che rinvia al culto post-classico dell’”aurea mediocritas”. Quindi, un tono sempre molto lontano sia dal comico o dal grottesco che hanno fatto grande la commedia cinematografica italiana, sia dall’intellettualismo “alto” da sempre ricercato dal cinema d’autore nazionale. Ma, a ben vedere, i film di Avati non hanno nulla a che fare neppure con il cinema d’impegno sociale o con il realismo quotidiano teorizzato dal neorealista, preferendo percorrere strade sempre attraversate da soggettive pulsioni oniriche o da personali tensioni fantastiche. Un cinema, il suo, che si colloca con ostentazione “altrove”: su un terreno inesorabilmente diverso rispetto a quello arato dalle mode produttive italiane. È in questo “altrove” che si può individuare la più autentica originalità del suo sguardo sul mondo, sui sentimenti e sulle aspettative dei suoi personaggi. E si tratta, appunto, di un “altrove” dove i toni si smorzano, i ritmi si cadenzano su quelli di una malinconica rassegnazione, mentre lo sguardo della cinepresa di Avati si abbassa ad accarezzare con un misto di nostalgia e di commossa partecipazione emotiva l’esistenza di protagonisti che sembrano aggirarsi per l’Italia (preferibilmente la Emilia-Romagna) avvolti in un aurea un po’ “flou”, che li rende sovente simili a simpatici fantasmi prigionieri del sogno di un’esistenza possibile, e in fin dei conti proprio per questo serena.
Amore romagnolo per l’horror (da Balsamus a La casa delle finestre che ridono) e passione per la musica jazz (Jazz Band, Bix) o per il cinema (da Cinema!!! a Festival), evocazioni storiche di storie che privilegiano esistenze marginali (da Una gita scolastica a Noi tre, da Magnificat a I cavalieri che fecero l’impresa) e ricordi di feste campagnole o di vita di provincia (tema che attraversa molti dei suoi film, basti citare Sposi o Storie di ragazzi e ragazze o Fratelli e sorelle), la monotonia del lavoro in banca (Impiegati) e l’eccezionalità di una partita a poker (Regalo di Natale) o su un campo di calcio (Ultimo minuto), il viaggio di un figlio per il matrimonio della madre (Seconda notte di nozze) o l’incontro organizzato dalle figlie per sistemare un padre sulla via del tramonto (La cena per farli conoscere). Non fa molta differenza quale sia il tema o il genere che il cinema Pupi Avati affronta, perché – film dopo film – il suo discorso si costruisce e definisce sempre in base a uno sguardo che tende a smorzare i toni, a mitigare i conflitti, a conciliare anche le situazioni più drammatiche in un clima di rassegnazione: ora dolente e ora illuminata da un sorriso, ma sempre attraversata dalla consapevolezza che la vera virtù sta nel mezzo, dove gli estremi si elidono e la vita assume un senso condivisibile.
È difficile trovare nella storia del cinema un altro regista, insieme tanto schivo e tanto prolifico quale Avati. Nel vedere i suoi film si coglie sempre con nitore che egli ama i propri personaggi, che le storie degli uomini lo interessano e lo coinvolgono intimamente; ma si percepisce anche che riesce a vedere, o sceglie di privilegiare, in quegli individui e nelle loro vicende esistenziali solo l’incapacità di vivere, l’accettazione dell’impotenza quale forma costitutiva dell’esistenza umana.
Cresciuto nella terra e nel culto di Federico Fellini, Pupi Avati è però autore di un cinema profondamente diverso dal suo, se non altro perché le pur presenti istanze autobiografiche non vengono mai poste al centro del racconto, ma agiscono come humus fertile di una sincera predilezione per la narrazione, per il piacere di conoscere gli altri: cioè, anche, per inventare dei personaggi molto diversi da sé e lasciarli poi vivere dentro al proprio sguardo. È fondamentalmente questo che rende tutti i film di Avati così intimi, ma anche così aperti verso il mondo. Film d’autore, certo; ma senza sottolineature autoriali e con la disponibilità a percorrere i sentieri di un “genere”, ad adeguarsi alle istanze del tempo presente a non insistere troppo sul primato estetico dello stile o della forma che crea i contenuti. Tutto questo fa sì che nel cinema di Avati ciò che conta soprattutto è rappresentato dai personaggi e dagli attori chiamati a farli vivere sullo schermo. Il cinema-cinema, quello che piace ai “cinéphiles” e ai frequentatori più incalliti dei cineclubs, resta sempre un poco sullo sfondo dei suoi film che, proprio per questo, hanno avuto sovente difficoltà a essere riconosciuti nella loro dimensione autoriale.
Pupi Avati è andato, comunque, sempre avanti per la sua strada, senza sbandamenti e senza esitazioni, trovandosi di volta in volta le alleanze più opportune (ultimamente il governo Berlusconi gli ha dato cariche pubbliche e nuovo slancio creativo) per continuare a percorrerla. Fedele al suo cinema “famigliare”, con la mai interrotta collaborazione del fratello Antonio (e ora anche dei figli), ma soprattutto con la costante presenza di una propria compagnia d’attori-amici, inevitabilmente cambiata nel corso degli anni e sovente integrata da “new-entry” o da “guest-star”, ma quasi sempre ben salda nelle sue componenti fondamentali.
Gli attori che hanno attraversato più a lungo il cinema di Pupi Avati sono stati Gianni Cavina (già presente in Balsamus e poi in quasi ogni suo cast sino a La rivincita di Natale) e Carlo Delle Piane (riscoperto in Tutti defunti tranne i morti e diventato in seguito una specie di icona del suo cinema in sottotono), ma colui che dalla metà degli anni Settanta ai primi anni Novanta (da La casa dalle finestre che ridono a Jazz Band, Le strelle nel fosso, Cinema!!!, Noi tre, Ultimo minuto, sino a Fratelli e sorelle) ha assunto più di ogni altro il ruolo di alter ego del regista (tanto che qualcuno ha potuto vedere nel loro sodalizio un qualcosa di simile a quello tra Truffaut e Léaud) è stato Lino Capolicchio. Ma poi ci sono tutti gli altri. Dalla meteora Nik Novecento (Impegati, Festa di laurea, Ultimo minuto, Sposi), con Elena Sofia Ricci quasi sempre a suo fianco, e da Diego Abatantuono (protagonista di cinque suoi film da Regalo di Natale a La cena per farli incontrare) a Alessandro Haber e più recentemente Vanessa Incontrada. In ogni circostanza produttiva e con le più diverse storie raccontate, Pupi Avati ha sempre dimostrato di essere un ottimo direttore d’attori, confermando questa sua qualità anche quando ha scelto di lavorare con degli sconosciuti o ha avuto modo di confrontarsi con interpreti già celebri – come è il caso di Ugo Tognazzi (La mazurka del barone…, Ultimo minuto) – o di formazione prevalentemente teatrale quali Mariangela Melato (Aiutami a sognare), Gabriele Lavia (Zeder), Luca Barbareschi (Impiegati), Anna Bonaiuto (Storia di ragazzi e ragazze e Fratelli e sorelle) o Carlo Cecchi (L’arcano incantatore).
Raccontare una storia, far vivere i personaggi attraverso la recitazione di attori ben diretti, guardare al quotidiano con lo sguardo sincero e dimesso di chi non crede all’esistenza degli dèi e degli eroi. Sono queste le qualità essenziali del cinema di Pupi Avati. Anche il senso più autentico del suo culto della “mediocrità”. Forse anche il motivo per cui il suo cinema ha la capacità di essere lo specchio di un mondo contemporaneo costretto a vivere nella malinconica nostalgia dei grandi conflitti, dei valori alti, della classicità stessa.
(di Aldo Viganò)
Chi è
Giuseppe Avati, detto Pupi, nasce a Bologna il 3 novembre 1938, da famiglia borghese. Rimasto orfano a dodici anni, cresce con la madre, la sorella e il fratello minore Antonio, che sarà poi suo fondamentale collaboratore in molti film. Dopo il liceo scientifico, frequenta la facoltà di Scienze politiche. Durante gli studi scopre la passione per il jazz, che suona egli stesso dapprima al contrabbasso e poi al clarino. Per un certo periodo nel suo complesso suona anche Lucio Dalla.
Per mantenersi fa il piazzista di tessuti e lavora alla Findus. L’ingresso nel mondo del cinema avviene nel 1967, come aiuto-regista di Piero Vivarelli per Satanik. Nel 1968 debutta nel lungometraggio con Balsamus, l’uomo di Satana e l’anno dopo conferma la sua vocazione verso storie fantastiche con Thomas, rimasto a lungo inedito in Italia. Trasferitosi a Roma con moglie e figli ottiene la fiducia di Ugo Tognazzi e realizza il suo terzo film, il cui successo gli spiana la via della professione. Nei primi anni romani lavora sovente “non accreditato” come sceneggiatore per film di altri registi.
Con il fratello Antonio e Gianni Minervini fonda nel 1976 la A.M.A. Film e, nel 1986, dà vita, sempre con il fratello Antonio, alla casa di produzione “Due A Film”. Dal 1996 diventa direttore artistico di Sat 2000, la Tv dell’episcopato italiano. Dal 2002 al 2004 è presidente di Cinecittà Holding.
Il Cinema secondo Avati
Il mio amore per il cinema è nato attraverso la musica. A un certo momento della mia vita, quando tutti coloro che suonavano con me mi hanno abbandonato, presi da lauree, impieghi e faccende varie, decisi di fare uno spettacolo di chiusura di questo periodo: uno spettacolo in cui raccontavo la storia del jazz attraverso le nostre esperienze. Lo spettacolo fu messo in scena al Teatro Duse di Bologna ed ebbe un discreto successo. I circoli culturali del Pci ci richiesero questo spettacolo che però, scenograficamente, era abbastanza complicato, e allora pensammo di filmare la parte visiva e di portare in giro soltanto i cantanti e le orchestre. Tra l’altro c’era Lucio Dalla, alla sua prima o seconda esperienza in pubblico. Quella decisione comportò il mio avvicinamento alla machina da presa a 16mm, e fu così che fui spinto sulla strada del cinema.
Io sono oggetto di definizioni standard. All’origine ero il giovane regista bolognese felliniano. E così mi etichettarono per un sacco di tempo. Poi hanno cominciato a togliere le parole giovane e felliniano. Adesso rimane solo la specifica bolognese.Buffo, no?
Ogni tanto io mi interrogo sui generi, così una volta mi sono detto: “Vediamo se riusciamo a fare una commedia rosa, un film dell’orrore però con delle cose divertenti…”.
Immagino, anzi ne ho quasi la certezza, che tutti – da quelli della Rai alla troupe che lavora con me fino ai miei di famiglia – non ne possano più del fatto che vado sempre a girare le miei cose in Emilia! Ma io insisto imperterrito, perché è come se avessi la sensazione che nella mia terrea natia un giorno, gira di qua scava di là, scoprirò qualcosa di eccezionale e di premiante. Forse sarà solo un’illusione, la stessa che, con gli amici, avevamo da giovani, ma io continuo a portarmela appresso. In questo temo proprio di non essere invecchiato per niente, anche se ormai ho una bella barba e tendo al grasso; malgrado la valanga di cose belle o brutte che ho visto in questi anni, continuo a coltivare la mia ingenua speranza.
La nostra terra offre occasioni di osservare la follia che probabilmente poche terre offrono. In nessuna parte ci sono tanti matti di pese come nei paesi della Romagna. Per motivi bellici ho trascorso gli anni della giovinezza in campagna, quindi le occasioni di spettacolo sono date probabilmente anche da fatti di mostruosità: cioè, il matto,la grassona, il nano, l’albino, il senso della morte, il grottesco comunque ti sono vicini, li vivi da vicino…
I miei film sono spesso autobiografici e nella prima fase della mia carriera ho avuto la fortuna di trovare un attore che poteva rappresentarmi sullo schermo così come io mi vedevo. E’ Lino Capolicchio. Io non sono come Capolicchio, non ci assomigliamo fisicamente in niente, però io sento di avere quel tipo di sensibilità e di timidezza che Lino ha nella vita. Era l’unico che poteva impersonarmi sullo schermo. Così come sono, pregi e difetti.
Trovo che la telecamera toglie il fascino del cinema. La macchina da presa è una cosa e la telecamera è un’altra cosa. C’è anche la freddezza di questo silenzio, lo studio e la stessa terrificante possibilità di vedere immediatamente quello che uno ha fatto. E questo no, non mi piace. Per questo, anche per la televisione giro col mezzo cinematografico. E sostengo che tutto quello che può andare per il grande schermo può entrare anche nel piccolo. So che i teleromanzieri lo negano, ma resto di questo parere.
La moviola è il confessionale del cinema, il momento della verità. Quando vai in moviola ti accorgi di tutte le cose sbagliate che hai fatto, fai i conti con quello che hai girato. E’ lì che si impara il cinema. Un volta pensavo che il cinema s’imparasse sul set, mentre ora so che s’impara alla moviola.
La colonna sonora ha un’importanza fondamentale nei miei film. Mentre giro, lascio appositamente degli spazi per tappare dei buchi. Concedo spazio all’intervento creativo del musicista, il quale non è più solo un supporto, ma acquista anche una valenza narrativa.
Mi piace moltissimo il fatto che il cinema sia finzione, che menta in modo così suadente, che sia così bravo a ingannare lo spettatore. Questa capacità che ha il cinema di diventare, da improbabile, probabile è la cosa che mi intriga di più. E la musica, in questo senso, è l’elemento più straordinario, perché la musica nella vita non c’è quasi mai. In questo momento io e te stiamo parlando e non ci sono 40 violini che suonano in sottofondo. Nel film ci sono, e la gente non si guarda intorno per cercare questi violini. E’ una delle cose più straordinarie del cinema.
(Dichiarazioni tratte da interviste varie di Pupi Avati)
Filmografia
Regie
1968: Balsamus l’uomo di Satana
1969: Thomas…gli indemoniati
1974: La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone
1975: Bordella
1976: La casa dalle finestre che ridono
1977: Tutti defunti tranne i morti
1978: Jazz Band – Le strelle nel fosso
1979: Cinema!!!
1981: Aiutami a sognare
1982: Dancing Paradise
1983: Zeder – Una gita scolastica
1984: Noi tre
1985: Impiegati – Festa di laurea
1986: Regalo di Natale
1987: Ultimo minuto
1988: Sposi
1989: Storie di ragazzi e di ragazze
1991: Bix
1992: Fratelli e sorelle
1993: Magnificat
1994: L’amico d’infanzia – Dichiarazioni d’amore
1996: L’arcano incantatore – Festival
1997: Il testimone dello sposo
1999: La via degli angeli
2001: I cavalieri che fecero l’impresa
2003: Il cuore altrove – Rivincita di Natale
2005: Ma quando arrivano le ragazze – Seconda notte di nozze
2007: La cena per farli conoscere – The Hideout (in preparazione).
Sceneggiature (oltre a quelle dei film da lui diretti)
1974: Il bacio (Mario Lanfranchi)
1975: Il Cav. Costante Nicosia ovvero Dracula in Brianza (Lucio Fulci) – Salò o le 120 giornate di Sodoma (Pier Paolo Pasolini, non accreditato)
1976: La padrona è servita (Mario Lanfranchi)
1980: Macabro (Lamberto Bava)
1991: Dove comincia la notte (Maurizio Zaccaro)
1994: La stanza accanto (Fabrizio Laurenti)
1995: Voci notturne (Fabrizio Laurenti, co-regia)