Marco Bellocchio


Marco BellocchioTra impegno politico e individualismo interiore: tutto il cinema di Marco Bellocchio è declinato lungo il filo di un’impossibile coincidenza degli opposti. E non solo perché nella sua filmografia alla rabbia autobiografica (I pugni in tasca o Nel nome del padre o Gli occhi e la bocca) può far seguito il sarcasmo ideologico (La Cina è vicina o Sbatti il mostro in prima pagina), oppure perché il realismo documentaristico di Matti da slegare vi può non entrare in contraddizione con il pamphlet antimilitarista di Marcia trionfale, oppure ancora perché il mai rinnegato primo amore per il teatro d’interpretazione (Il gabbiano, Enrico IV e Il principe di Homburg) riesce a convivere con lo psicologismo erotico di Diavolo in corpo o di La visione del sabba o di La condanna, così come lo sperimentalismo espressionista di certi passaggi di Salto nel buio sa fare con la classicità strutturale di La balia, aprendo la via alla scomposta maturità di opere quali L’ora di religione o Buongiorno, notte. Il fatto è che l’ardua tensione verso quella coincidenza degli opposti attraversa al loro interno anche ogni singolo film di Bellocchio, lasciando che ogni tanto vi affiori il segno evidente di una ricerca stilistica, altre volte il primato dei contenuti, altre ancora la tentazione junghiana del realismo onirico.

Ora, se tutto ciò porta sovente il cinema del regista piacentino a disunirsi nella definizione estetica e a diventare meno preciso nella individuazione delle sue tensioni narrative, è però proprio questa esibita contraddittorietà interna che concorre sempre a renderlo, quel suo cinema, sempre molto vivo e vitale, sovente anche sorprendente: sicuramente capace di spiazzare di continuo lo spettatore, non lasciandolo mai riposare in soluzioni scontate o in articolazioni linguistiche facilmente prevedibili. Questo è Bellocchio: autore non acquietato, e per questo mai assimilabile alle mode o alle aspettative festivaliere. Un cinema, il suo, sovente irritante nelle scelte espressive, ma sempre percorso da autentici fermenti estetici capaci di aprire inediti squarci interpretativi sulla realtà. Senza bisogno di ritornare indietro sino a film quali I pugni in tasca o La Cina è vicina che hanno proprio nella contraddizione la loro dichiarata cifra stilistica, basti soffermarsi sullo scarto esistente, in La condanna, tra gli architettonici arabeschi intessuti dai corpi dei protagonisti nella notte dello “stupro” nel museo e la statica tensione logico-dimostrativa di tutta la successiva sequenza del processo. Oppure, in Il diavolo in corpo, ricordare il profondo divario che si viene a creare tra la complessità del personaggio femminile e la funzionale schematicità di quelli maschili. Oppure, ancora, constatare l’inconciliabilità che si viene a creare in Buongiorno, notte tra la complessa e angosciante sequenza dell’affitto dell’appartamento da parte dei brigatisti rossi e l’irrisolta banalità psicologica del sogno nel quale il carnefice identifica nella vittima la figura del padre.

Regista di buona formazione culturale e di dichiarata estrazione borghese, Bellocchio ha esordito nel cinema con un cortometraggio (Abbasso lo zio) sui giochi dei bambini in un cimitero di provincia, e il senso dolce della morte, sottolineato dalle morbide carrellate laterali, torna a essere il tema centrale del suo primo, scandaloso lungometraggio (I pugni in tasca), nel quale, a ventisei anni, egli già enuncia, pur all’interno di un sistema produttivo ancora molto indipendente, quelli che saranno i temi e le coordinate espressive più ricorrenti di tutta la sua filmografia. Innanzitutto, l’ossessiva centralità della famiglia (e non solo di quella biologica) come nido insieme amato e odiato, rifugio individuale e prigione da distruggere. Ma, poi, anche la predilezione per gli spazi chiusi dove la luce e l’ombra entrano in un conflitto che suggerisce intima malattia esistenziale; la concretezza dei corpi nello spazio e l’uso tendenzialmente astratto del tempo. Ci penserà poi il Sessantotto, in qualche modo anticipato da La Cina è vicina e già ironizzato in Discutiamo discutiamo, ad arricchire il cinema di Bellocchio con una sofferta riflessione sulla politica e sui rapporti di classe, che non rinnega però mai quella che resta l’ossessione centrale di tutti (o quasi) i suoi film, costruiti essenzialmente sul sottile crinale che separa la normalità dalla follia: in uno spazio estetico e psicologico che, passando attraverso i lunghi piano-sequenza di Salto nel buio, troverà appoggio e discussa occasione di approfondimento nel sodalizio (qualcuno preferisce parlare di subordinazione psicologica) costruito negli anni Ottanta con lo psicanalista Fagioli, da cui uscirono film certo ambigui e alquanto confusi, ma anche sottesi di grande vitalità sperimentale, quali Diavolo in corpo, La visione del sabba, La condanna (sul caso Popi Saracino), sino a Il sogno della farfalla.

Con La balia, tratto da un racconto di Pirandello, Bellocchio rimane coerente a se stesso (ancora una storia di follia nel chiaroscuro di un interno familiare), ma inaugura una nuova fase del suo cinema al cui centro non stanno più tanto l’autobiografia o la prospettiva psicologica sulla realtà, quanto la riflessione sul linguaggio cinematografico e la consapevolezza, spinta sino al limite dello sperimentalismo, che i contenuti sono determinati dalla forma. Così è anche nell’inquieto e cupo L’ora di religione, nel quale il tema della famiglia s’intreccia con gli interrogativi sul senso religioso della vita, e torna a essere in Buongiorno, notte, nelle cui inquadrature la dimensione storico-cronachistica del caso Moro finisce col passare decisamente in secondo piano rispetto al gioco delle ombre o al continuo e dialettico intrecciarsi tra immagini televisive e cinematografiche, tra le sonorità giornalistiche provenienti dal monitor sempre acceso e i silenzi spiati attraverso la fessura che separa il prigioniero dai suoi carcerieri. E ancora il cinema si annuncia essere al centro di Il regista di matrimoni che Bellocchio si è affrettato ad allontanare da “quella serie di capolavori dove il cinema e la macchina del cinema erano al centro di tutto il film”, per rivelare però che nella storia di quel regista interpretato da Sergio Castellitto – il quale entra in crisi quando la figlia sceglie di sposare un cattolico fervente e, anche per questo, si lancia in un’avventura sentimentale con la figlia di un principe siciliano – egli ha voluto “esprimere un amore per la ricerca, un entusiasmo che apra nuove strade”. Ricerca ed entusiasmo, pertanto: ecco le due parole chiave che fanno di ogni nuova opera di Bellocchio un evento atteso anche da chi è convinto che l’inquieto regista piacentino non abbia ancora realizzato il film capace di sintetizzare in modo compiuto le sue contraddizioni intellettuali e il suo indubbio talento.

(di Aldo Viganò)

Chi è
Marco Bellocchio nasce il 9 novembre 1939 a Piacenza, dove studia dai Fratelli delle Scuole Cristiane, per trasferirsi poi nel Liceo di Lodi retto dai padri Barnabiti. Completati gli studi secondari, s’iscrive alla Facoltà di filosofia dell’Università Cattolica di Milano, dove contemporaneamente frequenta l’Accademia dei Filodrammatici. Nel 1959 è accettato al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, dove frequenta un anno di recitazione e due di regia, realizzando tre cortometraggi, di cui uno (Abbasso lo zio) di autonoma produzione. Ottenuta una borsa di studio, frequenta per un anno la Slade School of Fine Arts di Londra, presentando per il diploma una ricerca sul lavoro degli attori nel cinema di Antonioni e di Bresson. Tornato in Italia, pubblica alcune poesie e qualche intervento critico sulla rivista “Quaderni piacentini” diretta dal fratello Pier Giorgio con Grazia Cherchi. Il suo primo lungometraggio – I pugni in tasca – è realizzato in piena autonomia, finanziato dal fratello magistrato Tonino e girato in gran parte nella casa di campagna che la sua famiglia possiede a Bobbio. Pittore dilettante in età giovanile, Bellocchio ha messo anche in scena per il teatro due testi di Shakespeare: Timone d’Atene al Piccolo di Milano (stagione 1969/70) e Macbeth al Teatro India di Roma (estate 2000).

LA PAROLA A BELLOCCHIO
L’infanzia di un regista

* Sono convalescente da una scuola di odio e di amore; nell’azione cattolica odiai la gioventù comunista. Qualche anno dopo, provai un senso di rancore per gli assistenti dell’azione cattolica. Poi sopraggiunse la fase della pietà universale. Compassione per tutti. Dopo di che una breve fase di cinismo. Tutti ipocriti, tutti corrotti. Un paesaggio umano disperato, tutti colpevoli. Finalmente, un nuovo rilancio classista…. (1969)

* C’è una mia disposizione infantile, una dimensione infantile che è in me e mi accompagna, non di rifugio nell’infanzia, ma di coscienza che quella è stata l’età in cui mi sono formato e diventato quello che sono oggi (e sarò sempre?) nel peggio come nel meglio. (1971)

* Io sono ancora un autore irrequieto. E questa irrequietezza corrisponde a un’angoscia infantile di fuggire, di scomparire, ma anche di cercare la verità. (1980)

Il cinema e lo stile
* Il mio lavoro è stato sempre contraddistinto da uno zigzagare continuo tra generi cinematografici, teatro, cinema militante, tutte esperienze da cui ho sempre cercato di farmi coinvolgere totalmente.

* La moralità è affidata allo stile: uno stile freddo, oggettivo, spietato, che riveli un atteggiamento di permanente ironia e di distacco da una materia così malsana e seducente, per evitare allo spettatore qualsiasi equivoco e permettergli una disapprovazione costruttiva, di comune accordo con l’autore. (1978)

* Salto nel vuoto è un film che ho “vissuto” sul piano dell’impegno personale, ma che esigeva, nella composizione, una scelta rigorosa di linguaggio. (1980)

* E’ necessario lavorare molto: il rigore, lo stile si conquista anche con tanto lavoro, tanta pazienza. (1978)

* Il film si realizza sul set e si tiene conto del materiale umano che si ha. (1997)

* Rispetto alla materia trattata, ai soggetti che scrivo, cerco di non essere né fatalista, né troppo rigido: se incontro una difficoltà cerco di affrontarla e risolverla in ogni modo possibile. (2003)

Gli attori e il tempo
* Della mia prima vocazione alla recitazione mi è rimasta la passione per gli attori (1980)

* Quando io lavoro ho bisogno di tempo, di pensare e ripensare, di vedere e rivedere, a partire da una sceneggiatura molto elaborata e precisa, preparata con grande anticipo sulla lavorazione. (1984)

Con i pugni in tasca
* Il mio primo film prendeva a piene mani da tutta la mia adolescenza e la proponeva così, in maniera quasi diretta, nel senso che era uno schema che mi portavo dietro da parecchi anni. (1969)

* Perché ho fatto I pugni in tasca? L’ho fatto semplicemente perché sentivo la necessità di verificare la mia professione, perché un regista è tale solo quando ha fatto un film… Avevo bisogno non soltanto di vedere i film degli altri, ma di paragonarli con quelli che io potevo fare. (1965)

Individuo e società
* A me interessa moltissimo un cinema di verifica diretta, polito, militante, capace anche di offrire e di discutere delle prospettive politiche. Solo che questo cinema mi obbliga assolutamente a un lavoro collettivo. (1976)

* L’esasperato individualismo dei miei film mi crea degli scrupoli. Di conseguenza sento l’esigenza di riacchiappare il reale che sta veramente al di fuori di me, e con cui la mia vita privata non ha quasi mai avuto niente a che fare, di tirarlo dentro, nel discorso personale, per una specie di sfiducia nella forza di quest’ultimo. (1978)

* C’è in me un’anima segreta che mi propone un lavoro artigianale, di contatti veri, un lavoro insieme ad amici, al di fuori di ogni logica di clan. (1980)

* Dopo Diavolo in corpo, è la figura della donna che mi interessa: non potrei più fare un solo film che non fosse dominato dalla presenza femminile. (1985)

* Una interpretazione è rivoluzionaria nella misura in cui feconda la nostra conoscenza e tiene affamata la nostra riconoscenza. (1963)

* Il pensiero religioso contiene una dimensione di fatalismo, di accettazione rassegnata della realtà. (2003)

Amori e sogni
* Il cane è un animale che mi ha sempre affascinato: ho scritto un soggetto su un cane, avrei voluto fare Cuore di cane di Bulgakov, piangevo da bambino per Lassie che tornava a casa; è più umano della scimmia e funziona più come metafora di un certo tipo d’uomo, sottomesso, fidato, sentimentale, riconoscente, servo buono, affezionato, ecc. ecc. (1980)

Le dichiarazioni di Marco Bellocchio sono tratte da interviste rilasciate nel corso di quarant’anni, e pubblicate su diverse riviste italiane.

Filmografia
1961:
Abbasso lo zio (corto) – La colpa e la pena (corto)
1962: Ginepro fatto uomo (corto)
1965: I pugni in tasca
1967: La Cina è vicina
1969: Discutiamo discutiamo (ep. di Amore e rabbia) – Paola-Il popolo ha rialzato la testa (documentario) – Viva il primo maggio rosso (documentario)
1971: Nel nome del padre
1972: Sbatti il mostro in prima pagina
1974: Nessuno o tutti – Matti da slegare (co.regia Silvano Agosti, Stefano Rulli, Sandro Petraglia)
1976: Marcia trionfale
1977: Il gabbiano
1980: Vacanze in Valtrebbia (documentario) – Salto nel vuoto
1982: Gli occhi, la bocca
1984: Un romain dans l’Arene (documentario) – Enrico IV
1986: Diavolo in corpo
1987: La macchina cinema (co.regia Silvano Agosti, Stefano Rulli, Sandro Petraglia: girato per la tv nel 1978)
1988: La visione del sabba
1991: L’uomo dal fiore in bocca (mediometraggio in alta definizione) – La condanna 1994: Il sogno della farfalla
1995: Sogni infranti. Ragionamenti e deliri (mediometraggio)
1997: Elena (corto) – Il principe di Homburg
1999: La balia
2002: Addio del passato (mediometraggio) – L’ora di religione
2003: Buongiorno, notte
2006: Il regista di matrimoni.

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