Con solo quattro lungometraggi sinora realizzati, il quarantenne James Gray (New York, 1969) si è rivelato come uno dei registi più personali e interessanti della nuova generazione statunitense. Scoperto a ventiquattro anni alla Mostra di Venezia, dove il suo Little Odessa vinse a sorpresa il Leone d’argento e garantì a Vanessa Redgrave il premio come migliore attrice non protagonista, ma precipitato subito nell’inferno del fallimento commerciale con il pur ottimo The Yards, Gray è risorto lo scorso anno con I padroni della notte e si conferma oggi regista di talento con un “melò”, Two Lovers, dal forte impatto visivo e dalla splendida sintesi drammatica, in cui torna a coniugare i temi a lui sempre particolarmente cari: vale a dire quelli della famiglia, intesa sia come legame tra consanguinei, sia come appartenenza a una ben precisa comunità etnica (qui quella ebraica), che funge insieme da collante esistenziale e da prigione dalla quale i suoi protagonisti tentano invano di sfuggire.
Abbandonato il prediletto modello narrativo “criminale”, Gray si addentra con Two Lovers in un terreno tematico d’origine dostoevskiana (dietro la storia dei due “sognatori” che s’incontrano per caso e che si riconoscono nella speranza di un impossibile futuro diverso, s’intravvede il tema centrale di Le notti bianche), ma lo fa senza alcuna concessione alla scrittura letteraria. Il suo è sempre cinema puro, sovente estremo negli esiti linguistici, in cui ciò che conta veramente è la forza visiva e narrativa delle immagini: il loro concatenarsi in un ritmo che apre continuamente prospettive verso un mondo molto più complesso della sua semplice apparenza e la loro capacità di costruire un universo di grande tensione drammaturgica. Con Two Lovers, James Gray si conferma regista dalla vocazione classica, autore di un cinema capace di coniugare la personalità dello sguardo sul mondo e sulla vita con gli archetipici modelli narrativi del cinema di genere. Perché Two Lovers è evidentemente un “melò”, che alza progressivamente situazioni e personaggi a un livello emotivo sempre maggiore, ne descrive lo stato di precarietà così raggiunto e, infine, ne racconta la caduta.
Come si conviene ai grandi “melò”, appunto. E’ questa parabola il vero soggetto di Two Lovers e la trama che la sottende si rivela essere solo la materia destinata a vivere attraverso l’originalità della forma. Un uomo con turbe esistenziali (Joaquin Phoenix, attore feticcio di Gray) tenta il suicidio. Non è la prima volta che ciò accade. La sua famiglia lo accoglie e lo protegge, ma il caso gli fa incontrare due donne: la concreta Vinessa Shaw (una rivelazione, anche se già vista nell’ultimo film di Kubrick) gettatagli tra le braccia dai genitori (Isabella Rossellini e Moni Moshonov) e la fragile vicina di casa Guyneth Paltrow. Un bivio come in The Yards. La realtà o il sogno. Due possibili modalità di esistere, la cui scelta finale compete più alla casualità contingente che alla libera scelta individuale. Il pessimismo di Gray è tanto più drammatico perché avvolto nella cappa del destino. E in questo sta molto del fascino dei suoi film.
Two Lovers
(Two Lovers, Usa, 2008)
Regia: James Gray
Sceneggiatura: James Gray e Ric Menello
Fotografia: Joaquin Baca-Asay
Scenografia: Happy Massee
Costumi: Michael Clancy
Montaggio: John Axelrad
Interpreti: Joaquin Phoenix (Leonard Kraditor), Gwyneth Paltrow (Micelle Rausch), Vanessa Shaw (Sandra Cohen), Moni Moshonoy (Reuben Kraditor), Isabella Rossellini (Ruth Kraditor), John Ortiz (José Cordero), Bob Ari (Michael Cohen).
Distribuzione: Bim
Durata: un’ora e 40 minuti
(di Aldo Viganò)