Dopo il bellissimo Changelling ecco, solo pochi mesi dopo, lo straordinario Gran Torino. Giunto ormai alla soglia degli ottantant’anni il sempre più sorprendente Clint Eastwood si conferma l’ultimo dei grandi classici del cinema hollywoodiano, avendo raggiunto nel trascorrere degli anni una meravigliosa capacità di sintesi tra la libertà creativa dell’autore e la forza espressiva di una gloriosa tradizione cinematografica che affonda le proprie radici negli archetipi di modelli narrativi che pongono sempre l’essere umano, con le sue ansie e le sue contraddizioni, al centro del racconto.
Racchiuso tra la rappresentazione di due funerali (quello della moglie dello stesso protagonista), Gran Torino è un film che non ha mai nulla di funebre e tanto meno di senile. Anzi, si rivela subito un’opera attraversata da una eccezionale vitalità, la quale si manifesta soprattutto nella continua alternanza tra il dramma e la commedia, tra la dolente identificazione con le istanze dell’uomo solitario – che Clint Eastwood ha scelto di tornare a interpretare con la potente essenzialità della sua recitazione tutta “understatment” – e l’ironico distacco dello sguardo con cui la cinepresa osserva il suo modo di essere nel mondo. Ex reduce della guerra di Corea e operaio in pensione dell’industria automobilistica Ford, alla cui catena di montaggio era addetto ai volanti, Walt Kowalski (l’ironia sta già nel nome multietnico) e fondamentalmente un sopravvissuto.
Morta la moglie, non ama e non è amato dai figli. Si sente assediato dagli stranieri (asiatici di stirpe Hmong) che hanno invaso il suo quartiere e, al fine di proteggere il proprio territorio, ostenta sull’uscio di casa la bandiera a stelle e strisce (come se fosse Fort Apache) o non esita a imbracciare il fucile. E’ un vecchio prigioniero del passato (la forza simbolica della “Gran Torino” che tiene in garage e che solo ogni tanto tira fuori per lucidarla), ma è anche un uomo d’azione capace di riconoscere l’ingiustizia e di diventare quindi protagonista di un divenire cristologico, che lo porta in modo molto individualistico (c’è molto distacco ironico nel suo rapporto con il giovane prete irlandese che vorrebbe confessarlo dei suoi peccati) a sacrificare, come il protagonista di Gli spietati, se stesso nel disincantato dovere di un’impossibile redenzione dal male. Si ride sovente, nel corso di questa tragedia che racconta insieme la fine di un’epoca e l’ultimo viaggio interiore di un vecchio che non accetta di arrendersi al conformismo.
Clint Eastwood, infatti, porta qui in primo piano una delle componenti migliori e più originali di tutto il suo cinema: la ben calibrata mescolanza dei toni, per cui la ringhiosa solitudine del protagonista può trovare improvvisa rottura nelle serate trascorse a bere al bar con i pochi amici rimasti o nelle due splendide e “pedagogiche” sequenze nella bottega del barbiere italo-americano. E’ qui infatti che Eastwood rende esplicito, anche al fine di educare il giovane asiatico che ha scelto di proteggere, che cosa veramente può essere un rapporto concreto tra uomini, tra personaggi di un cinema che s’intertastisce ancora a voler parlare della complessità della vita. E come accade in tutti i classici, accade così che anche il comico si veni di nostalgia per ciò che poteva essere e non è stato.
Gran Torino
(Gran Torino, Usa, 2008)
Regia: Clint Eastwood
Sceneggiatura: Nick Schenk
Fotografia: Tom Stern
Musica: Kyle Eastwood e Michael Stevens
Scenografia: James J. Murakami
Costumi: Deborah Hopper
Montaggio: Joel Cox
Interpreti: Clint Eastwood (Walt Kowalski), Christopher Carley (padre Janovich), Bee Vang (Thao Vang Lor), Ahney Her (Sue Lor), Brian Haley (Mitch Kowalski), Geraldine Hughes (Karen Kowalski), Dreama Walker (Ashley Kowalski), Brian Howe (Steve Kowalski), John Carroll Lynch (barbiere Martin)
Distribuzione: Warner Bros. Italia
Durata: un’ora e 56 minuti
(di Aldo Viganò)