Il sogno e la realtà. E’ all’incrocio di queste coordinate che il britannico Sam Mendes (American Beauty, Era mio padre) costruisce, con la complicità dell’omonimo romanzo di Richard Yates, la sua nuova rivisitazione della provincia statunitense, spostando questa volta l’azione nei pastellati anni Cinquanta. Pur privato del distacco narrativo della voce fuori campo, il tono resta quello di America Beauty: un misto, cioè, di estraniata ironia e di partecipazione emotiva, che spinge il film sul terreno impervio che sta tra il melodramma sociale e la satira di costume.
Un terreno nel quale gli interpreti (ancor più dei personaggi) regnano sovrani, sapientemente guidati da un regista ancora in cerca di un personale stile cinematografico, ma ben consapevole dell’arte di dirigere gli attori appresa sui palcoscenici della Royal Shakespeare Company. Ed ecco allora, circondati da un piccolo e ben scelto manipolo di comprimari, Kate Winslet e Leonardo DiCaprio: i loro sguardi s’intrecciano in un salotto borghese; diventano i coniugi Wheeler e nascono due figli; con la mediazione della venditrice Kathy Bates, ora loro amica e vicina, si trasferiscono in una bianca villetta che sembra uscire da un depliant pubblicitario di sessant’anni fa e che ricorda nell’arredamento la casa sognata da Chaplin e Paulette Goddard in Tempi moderni. L’apparente lindore della vita quotidiana, trascorre però ben presto nel malessere esistenziale. Lei vede naufragare in una recita amatoriale i suoi sogni d’attrice. Lui trascorre frustranti giornate in città, lavorando nella ditta dove già era sopravvissuto suo padre. Liti e riconciliazioni, anche tradimenti.
L’infelicità s’insinua in quella famiglia apparentemente perfetta. Ed ecco il sogno: “Perché non vendiamo tutto e non ci trasferiamo a Parigi?”, propone lei; e lui la segue sul terreno dell’utopia, anche se in modo non troppo convinto. E poi? Come ben sa, nel suo ruolo di grillo parlante, il figlio di Kathy Bates, matematico finito in manicomio, non è mai possibile conciliare l’utopia con la realtà. DiCaprio non sa resistere alla tentazione dell’”offerta che non si può rifiutare” fattagli dal suo datore di lavoro e nasconde la sua rinuncia al sogno con il pretesto di rifiutare il proposito di lei di abortire del figlio concepito nel raptus erotico concretizzato in cucina al culmine dell’estasi utopica. La storia d’amore coniugata sul filo del più classico mito americano, naufraga nel fallimento, che si concretizza infine nella macchia di sangue che va a sporcare di rosso il candore della folta moquette del salotto famigliare. Revolutionary Road, che deve il suo titolo al certo non casuale nome della strada in cui abitano i Wheeler, è un film che resta prigioniero di un progetto narrativo alquanto schematico: sia nel suo impianto strutturale, sia nel sottolineato intento di far esplodere dall’interno la stupidità esistenziale dell’American Dream. Eppure, non risulta un film sgradevole. Due sono, infatti, i suoi meriti principali.
Da una parte, la già ricordata qualità della recitazione che soprattutto in Kate Winslet raggiunge livelli d’eccellenza; dall’altra, però, non va certo sottovaluta la sapienza con cui Sam Mendes costruisce la sua storia sull’incrociarsi o dissociarsi degli sguardi, sugli improvvisi e ben calcolati rovesciamenti di campo, sui numerosi carrelli in avanti dedicati ai piani d’ascolto. E’ questo nitore del linguaggio, infatti, che fa uscire i personaggi dallo schematismo e consegna ai loro troppi sorrisi ed esibiti tormenti interiori una consistenza drammatica, per molti versi accattivante.
Revolutionary Road
(USA, 2008)
Regia: Sam Mendes
Sceneggiatura: Justin Haythe, dal romanzo di Richard Yates
Fotografia: Roger Deakins
Musica: Thomas Newman
Scenografia: Kristi Zea
Costumi: Albert Wolsky
Montaggio: Tariq Anwar
Interpreti: Leonardo DiCaprio (Frank Wheeler), Kate Whinslet (April Wheeler), Michael Shannon (John Givings), Ryan Simpkins (Jennifer Wheeler), Ty Simpkins (Michael Wheeler), Kathy Bates (Mrs. Hlen Givings), Richard Easton (Mr. Howard Givings), David Harbour (Shep Campbell), Zoe Kazan (Maureen Grube), Kathryn Hahn (Milly Campbell).
Distribuzione: UIP
Durata: un’ora e 59 minuti
(di Aldo Viganò)