Muovendo da una storia vera mediata in forma di romanzo da John Krakauer, Sean Penn torna alle sue ambizioni di regista – questo è il suo film 4 e ½, dopo Lupo solitario, Tre giorni per la verità, La promessa e l’episodio di 11 settembre – e centra l’opera che più gli somiglia. Un po’ pasticciata nella sua vitalità; ora ingenua sino al limite del dilettantismo, ma altrove molto sofisticata nelle sue scelte stilistiche e alternative; comunque sempre sincera e mai rassegnata alla banalità.
Il viaggio iniziatico del ventenne Christopher McCandless è ricostruito attraverso un complesso intrigo di flashbacks e cadenzato in cinque capitoli. Il primo, La nascita, racconta come uno studente modello abbandoni agi borghesi, genitori e sorella per andare alla scoperta del mondo e di se stesso; nel secondo, L’adolescenza, si narra dei suoi viaggi e di come il suo passaggio lasci un segno indelebile in chi incontra; con il terzo, L’età adulta, accade che Christopher (autoribattezzatosi Alexander Supertramp) avverta l’esigenza di ritornare nella società, ma poi ci ripensi; il quarto, La famiglia, lo mette a confronto con una coppia di maturi hippies che per un po’ gli fanno da padre e madre, sino a che nel quinto, La saggezza, insieme alla scoperta dell’amore per gli altri viene anche la prova estrema della morte: banale e un po’ stupida come ben s’addice all’atto estremo di un’esistenza umana.
Almeno nella concezione un po’ panteista e un po’ new-age di cui si fa interprete Sean Penn, il quale dà fondamentalmente ragione alla scelta estrema del suo protagonista, perché nella vita non conta tanto «essere forti, ma sentirsi forti, essersi misurati almeno una volta con se stessi e con il mondo». Come il suo protagonista, Penn regista sembra credere fermamente al degrado della vita cittadina nei confronti della divinità di una natura, indifferente alla volontà degli uomini, ma comunque sempre vincente (la sequenza dell’uccisione dell’alce, con lo sprovveduto tentativo di conservarne le carni). Ciò lo porta, inevitabilmente, anche a fare un film lontano da Hollywood: ora ingenuo sino al limite dell’amatorialità nei suoi zoom in avanti, nei circolari carrelli aerei intorno al protagonista, nel calligrafismo del volo degli uccelli e dei tramonti; ma ora anche sotteso da un’autentica volontà di afferrare il senso del mondo attraverso un’inquadratura, un raccordo di montaggio, una sequenza.
E quando ciò accade – cosa che pur con discontinuità avviene spesso in quasi due ore e mezza di film – Into the Wild mostra in modo compiuto la propria ragion d’essere, che va ben al di là dell’ingenua filosofia espressa in battute del tipo «dal bene viene il meglio» e che, al meglio, riesce a fare del “magic bus” abbandonato in riva al fiume, nel quale Christhopher trova insieme la vita e la morte, la concreta sintesi di un luogo in cui l’utopia può essere ancora praticata.
Nelle terre selvagge
(Into the Wild, USA, 2007)
Regia e sceneggiatura: Sean Penn
Soggetto: dall’omonimo romanzo di Jon Krakauer
Fotografia: Eric Gautier
Scenografia: Derek R. Hill
Costumi: May Claire Hannan
Musica: Michael Brook, Kaki King, Eddie Vedder
Montaggio: Jay Cassidy
Interpreti: Emil Hirsch (Christopher McCandless), Marcia Gay Harden (Billie McCandless), William Hurt (Walt McCandless), Jena Malone (Carine McCandless), Brian Dierker (Rainey), Catherine Keener (Jan Burres), Vince Vaughn (Wayne Westerberg), Kristen Stewart (Tracy), Hal Holbrooki (Ron Franz)
Distribuzione: Bim
Durata: due ore e 28 minuti
(di Aldo Viganò)