Varcata la soglia dei sessant’anni, David Cronenberg (nato a Toronto nel 1943) si appresta a diventare un classico? La domanda viene spontanea dopo la visione di La promessa dell’assassino, che avviene a due anni di distanza da quella del bellissimo History of violence. Certo Cronenberg non cambia stile e tanto meno rinnega la personale ricerca svolta nei suoi precedenti lungometraggi e, nei limiti concessi, anche nei molti film realizzati per la televisione.
Ciò che sembra mutato è però l’ampiezza del suo sguardo; non la sua direzione, né tanto meno la sua intensità. Ma mentre prima i suoi temi preferiti (il rapporto mente e corpo, la mutazione genetica insita nel concetto stesso di modernità, il processo di incorporazione che la macchina e la tecnologica attuano sugli esseri umani) venivano sviluppati di preferenza su un piano di ricerca formale (con sequenze sovente entusiasmanti) che aveva come proprio riferimento soprattutto le forme narrative del “new horror”, già con History of violence, e ora con La promessa dell’assassino, il cinema di Cronenberg sembra essere giunto a una personale e felice sintesi di forma e struttura narrativa, concretizzandosi in film che non guardano più solo al cinema, bensì sono capaci di prefigurare un mondo intero. E in questo processo di universalizzazione dello sguardo, le sue due ultime opere acquistano un tono sempre molto alto, che concorre appunto a farne esempi compiuti di classicità. La promessa dell’assassino parla della mafia russa in una Londra umida e invernale, nella quale si muovono personaggi ben definiti innanzitutto nella loro dimensione corporea.
La tenace Naomi Watts, nel ruolo dell’ostetrica che, mossa forse da un frustrato istinto materno, vuole saperne di più sull’esistenza di una ragazza russa, morta dando alla luce un figlio nel suo ospedale. Lo psicopatico Vincent Cassel che in quel mondo di violenza e prostituzione si muove con un’arroganza non priva di fragilità esistenziali. La brutale gentilezza di Armin Mueller-Stahl, capo-famiglia votato scespirianamente alla solitudine. E, soprattutto, Viggo Mortensen (già protagonista di History of violence) che da autista sale progressivamente i gradini del potere, lasciando dietro di sé una lunga striscia di sangue (splendido il duello tutto fisico nel bagno turco) e trovandosi infine a sedere, anche lui solitario come un sovrano di Shakespeare, sul trono di un potere che non lascia più alcuno spazio a quegli affetti personali, che Cronenberg regala invece a Naomi Watts e alla sua famiglia.
È tramite questi grandi personaggi, messi in relazione tra loro con essenzialità stilistica e con sapiente drammaturgia, che La promessa dell’assassino diventa un film classico e appassionante: capace di parlare del Bene e del Male, della Vita e della Morte, del Potere e della Morale. Soprattutto, un film che fa uscire di sala lo spettatore riconciliato con il cinema. E di questo non si può che essergli grati.
La promessa dell’assassino
(Eastern Promise, USA, 2007)
Regia: David Cronenberg
Sceneggiatura: Steven Knight
Fotografia: Peter Suschitzky
Musica: Howard Shore
Scenografia: Carol Spier
Costumi: Denise Cronenberg
Montaggio: Ronald Sanders
Interpreti: Viggo Mortensen (Nikolai), Naomi Watts (Anna), Vincent Cassel (Kirill), Armin Mueller-Stahl (Semyom), Sinéad Cusack (Helen), Mina E. Mina (Azim), Jerzy Skolimowski (Stepan), Donald Sumpter (Yuri), Josef Altin (Ekrem).
Distribuzione: Eagle Pictures
Durata: un’ora e 40 minuti
(di Aldo Viganò)