Se si accede a un qualsiasi motore di ricerca su internet e si digita Quentin Tarantino, si scopre che su di lui e la sua opera si è già pubblicato nel mondo almeno una cinquantina di monografie, di cui una decina solo in Italia. Il tutto in meno di quindici anni e per un regista di solo otto film e mezzo: segno evidente del suo successo sia presso la critica, sia nel mondo dei nuovi cinéphiles, che nelle sue pellicole, come del resto anche nelle sue numerose provocazioni verbali, si sono sovente rispecchiati. Esploso all’inizio degli anni Novanta con Le iene, e soprattutto con Pulp Fiction, Tarantino è un regista che sintetizza sul grande schermo l’idea di un cinema nuovo che guarda ai classici attraverso il filtro della televisione e che preferisce organizzarsi nelle forme e nelle convenzioni dei generi popolari (dall’horror al thriller, sino al più coreografico pulp all’orientale), piuttosto che sul filo delle vocazioni autoriali nel nome delle quali la generazione dei Coppola e Spielberg o dei De Palma e Scorsese aveva nei due decenni precedenti programmato e portato a buon fine il proprio assalto a Hollywood. Se di “politique des auteurs” ancora si può parlare a proposito di Tarantino, certo è che molte cose sono cambiate in questa “politique” dai tempi in cui con André Bazin ci si poteva scoprire tutti “hitchcock-hawksiens”, perché da quel modello estetico Tarantino è programmaticamente lontano e probabilmente diversi devono essere pertanto anche i metodi di approccio alla sua opera.
Amante di un cinema dichiaratamente “popolare”, che definisce la propria visione del mondo lontano dai modelli letterari cari alla Hollywood classica come alla Nouvelle Vague francese, Tarantino non ha altra mediazione culturale che quella del cinema (occasionalmente anche dei fumetti), ma ha tradotto questa sua passione da cinéphile “puro e duro” in un pugno di film che, sia sul piano estetico, sia su quello concettuale, tracciano l’arco di una parabola evolutiva verso un cinema-cinema e di cui, con il trascorrere degli anni, si riconoscono sempre più chiaramente i contorni evolutivi. A un primo periodo (da Le iene a Pulp Fiction), in cui il suo lavoro sui “generi” e sull’idea stessa di cinema passava soprattutto attraverso la scomposizione delle strutture narrative classiche – in una sorta di teatralizzazione della realtà, fatta d’improvvisi scarti temporali, ma anche di una meticolosa cura per i dialoghi e per la recitazione degli attori – ha fatto seguito nella filmografia di Tarantino quello che sino ad oggi resta il suo film più composto e compatto (Jackie Brown), dove il suo sguardo, il suo personalissimo modo di fare cinema, sembra attingere all’armonia di un neo-classicismo, realizzando una piena, sintetica coincidenza tra provocazione e messa in scena, tra ricerca formale e piacere del racconto. Qualità, queste, certamente ancora ben presenti nei possenti due “volumi” di Kill Bill, i cui fiammeggianti fotogrammi lasciano però sempre più emergere in primo piano l’immagine di un Tarantino interessato soprattutto al fascino di soluzioni ritmico-formali, che travolgono lo spettatore con la loro forza figurativa, anche a prezzo di mettere decisamente in secondo piano quella sperimentazione drammaturgica che pur aveva caratterizzato e qualificato i suoi film degli anni Novanta.
Troppo “pulp” per piacere senza condizioni ai cultori del cinema classico, ma anche troppo raffinato sul piano formale per corrispondere pienamente ai gusti dei fanatici del “trash”, ai quali strizza pur sovente l’occhio, Quentin Tarantino sembra aver imbroccato – già in molti passaggi di Kill Bill, ma soprattutto con Grindhouse (e, da quel che si è letto da Cannes, anche con Inglourious Basterds) – il sentiero di un cinema fondamentalmente visionario e da consumarsi prevalentemente con il cuore in gola. Un cinema lontano dalla volontà di rappresentare il mondo in forma narrativa come dal compiacimento della sua riduzione ad esperienza calligrafica. Un cinema inteso soprattutto a definire se stesso attraverso la potenza dinamica delle sue sequenze d’azione, preparate ed esaltate però da altre sequenze completamente statiche e sovraccariche di parole, che sembrano aver ormai perso quel ruolo di ricerca linguistica che conservavano ancora sino a Jackie Brown, per diventare solo simulacro di uno statico chiacchiericcio quotidiano, la cui funzione rinuncia a raccontare qualcosa dei personaggi e della vita, ma sembra essere quella di preparare il momento in cui il cinema (cioè, la vita) lascia intravedere, almeno per il breve spazio di tempo della successiva sequenza mozzafiato, una via di uscita dal ripetitivo squallore in cui l’esistenza corre il rischio di cristallizzarsi. E’ in questo senso che Grindhouse, lungi dall’essere un momento d’involuzione del cinema di Tarantino, va considerato molto probabilmente il logico sbocco di una filmografia, nella quale ciò che veramente conta non è mai ciò che si dice, ma come lo si dice: le forme e non i contenuti, i ritmi e non il vero, la sperimentale manipolazione del linguaggio più che la sua concettuale sperimentazione comunicativa.
Certo è che non è sempre facile seguire Tarantino lungo questo piano inclinato di un cinema in cui Ferdinando Di Leo diventa più importante di John Ford o Edwige Fenech un oggetto di desiderio più intrigante di Katherine Hepburn, ma ciò che, film dopo film, continua a sorprendere nei film di Tarantino è la scoperta della forza, questa sì esclusivamente cinematografica, che tante sequenze dei suoi film lasciano sedimentare nella memoria dello spettatore anche più ostile. Come è possibile dimenticare, infatti, l’incrociare degli sguardi, dei dialoghi e delle pistole impugnate a braccia tese di Le iene? O il monologo dell’orologio di Christopher Walken e il ballo di John Travolta e Uma Turman in Pulp Fiction? O la conversazione a tre (Robert De Niro, Bridget Fonda e Samuel L. Jackson) che compone la prima sequenza di Jackie Brown? O ancora le innumerevoli sorprese figurative del doppio Kill Bill (dai duelli con la spada all’angoscia claustrofobia della sepolta viva) e l’irresistibile, travolgente gioco degli inseguimenti in macchina di Grindhouse? C’è un bel dire che Tarantino è un furbo venditore di se stesso e che nei suoi film è sempre presente un qualcosa di troppo programmato. Tutto vero, certo. Ma ciò nonostante nei suoi film fatti di travolgenti “scene madri” c’è sempre molto più cinema che nell’intera opera di tanti registi cresciuti ed esaltati nel clima cronachistico favorito dal modello estetico caro al Sundance Film Festival. Tarantino può anche non piacere per i suoi eccessi visionari, ma è anche depositario di un raro talento cinematografico, che ogni volta prende il sopravvento anche sulle sue intenzioni, sulle sue provocazioni, sulle sue sconclusionate dichiarazioni di poetica. La filmografia di Tarantino è la testimonianza della possibile sopravvivenza del cinema anche nell’età del postmoderno. Per questo non è possibile fare a meno di lui. Per questo continuiamo ad aspettare con ansia, speranza ed emozione l’uscita di ogni suo nuovo film.
Chi è
Quentin Jerome Tarantino nasce a Knoxville (Tennessee) il 27 marzo 1963 da genitori giovanissimi: Tony ha 21 anni, studia legge e vuole fare l’attore; Connie McHugh ha 16 anni e lavora come infermiera. Quando il padre abbandona la famiglia per andare a vivere a New York, la madre si trasferisce con Quentin a sud di Los Angeles, risposandosi ben presto con un pianista di bar, Curtis Arnold Zastoupil, che garantisce a Quentin un’infanzia serena, ricca di buone letture e di film di tutti i generi. Quando anche Connie e Curtis si separano, Quentin ha dieci anni ed è già uno spettatore cinematografico accanito. A quindici anni viene arrestato, perché sorpreso a rubare un libro di Elmore Leonard (The Switch) in un negozio. Frequenta il laboratorio teatrale di Torrance e s’iscrive a un corso di recitazione. Dal 1984 al 1996, lavora saltuariamente nel Video Archives di Manhattan Beach. Su consiglio di un’amica, Cathryn James, scrive le sue prime sceneggiature e debutta dietro la cinepresa con un film (My Best Friend’s Birthday) le cui riprese vengono quasi subito interrotte per mancanza di fondi. Viene arrestato per multe non pagate. Il successo delle sue prime sceneggiature (Una vita al massimo e Assassini nati) gli spalanca la via della regia. Le iene trionfa al Sundance Film Festival del 1992 e due anni dopo Pulp Fiction vince la Palma d’oro a Cannes. Nasce il mito Tarantino. Nel 1994 fonda la società di produzione “A Band Apart” (dalla storpiatura del titolo di Godard Bande à part) e l’anno seguente la casa di distribuzione “Rolling Thunder”. L’insuccesso al botteghino di Jackie Brown sembra interrompere la sua ascesa, ma sei anni dopo, con i due Kill Bill, il regista torna sulla cresta dell’onda, per precipitare nuovamente nell’insuccesso con l’episodio di Grindhouse. Mentre è in uscita anche in Italia il suo ultimo film presentato a Cannes (Inglorious Basterds), Tarantino sta lavorando ai progetti futuri, tra i quali vi è un Vega Brothers sui fratelli Vic e Vincent Vega (interpretati rispettivamente da Michael Madsen in Le iene e da John Travolta in Pulp fiction) e un nuovo film della serie di James Bond.
QUENTIN TARANTINO: IPSE DIXIT
■ Vinca il migliore
A Hollywood nessuno ha il coraggio delle proprie idee. Invece c’è un detto: «Vince quello che ha l’opinione più decisa». E quando entro in una stanza, sono sempre io quello che ha l’opinione più decisa.
■ La droga del “cinéphile”
Faccio collezione di pellicole di film. Se sei un fan, i video sono un po’ come la marijuana, i laser disc sono come la cocaina, ma le pellicole sono pura eroina.
■ Lo spirito del film
Una cosa che faccio quando inizio a girare un film, quando sto scrivendo un film o quando ho un’idea per un film, è di immergermi dentro la mia collezione di dischi e semplicemente iniziare ad ascoltare brani, cercando di trovare la personalità del film; cerco lo spirito del film.
■ Flashback? Not please
Quando leggi un libro, lo scrittore non ci pensa due volte a partire nel bel mezzo della storia. Nel quarto capitolo, entra un po’ nell’infanzia di un personaggio. E’ un flashback? No, è soltanto il modo in cui il narratore sta raccontando la storia. Mi piace usare quella struttura e applicarla al cinema.
■ La via dell’autodidatta
Per arrivare alla regia, la strada è stata molto, molto lunga. I soldi per permettermi una scuola di cinema non li avevo. Così, mi sono detto, l’unica cosa da farsi è girare, riprendere, cercare comunque di mettere insieme un film.
■ La critica cinematografica
Leggo le recensioni, mi piace la critica cinematografica. Se non fossi diventato un cineasta, avrei fatto il critico. Nutro più rispetto nei confronti della professione in sé, che verso la maggioranza di coloro che la esercitano. Preferisco una recensione negativa, ma ben scritta, a una positiva, ma scritta male.
Le dichiarazioni di Quentin Tarantino sono tratte da interviste rilasciate nel corso degli anni, e pubblicate nei libri: Simona Brancati, Kill Tarantino, Pericle Tangerne Editrice, Roma 2004; Simona Brancati, Quentin Tarantino, Le Mani, Recco-Genova 2008; Vito Zagarrio (a cura di), Quentin Tarantino, Marsilio Editori, Venezia 2009; Leonardo Gandini, Quentin Tarantino regista pulp, Fanucci Editore, Città di Castello 1996.
Filmografia
Lungometraggi
1986: My Best Friend’s Birthday
1992: Le iene (Reservoir Dogs)
1994: Pulp Fiction
1995: Four Rooms (ep. L’uomo di Hollywood – The Man from Hollywood)
1997: Jackie Brown
2003: Kill Bill: vol. 1
2004: Kill Bill: vol. 2
2005: Sin City (special guest director)
2007: Grindhouse (ep. A prova di morte – Death Proof)
2009: Inglourious Basterds (in uscita)
Televisione
1995: Niente di nuovo sotto il sole (Motherhood): ep. di ER – Medici in prima linea (ER – Emergency Room)
2004: Jimmy Kimmel Life (ep. del 20 aprile)
2005: Sepolto vivo (Grave Ranger): ep. di CSI – Scena del crimine (C.S.I.: Crime Scene Investigation)
Sceneggiature e soggetti (oltre a quelli dei suoi film)
1992: Le mani della notte (Past Midnight), regia di Jan Eliasberg
1993: Una vita al massimo (True Romance), regia di Tony Scott
1994: Assassini nati (Natural Born Killers), regia di Oliver Stone
1994: It’s Pat, regia di Adam Bernstein
1995: Allarme rosso (Crimson Tide), regia di Tony Scott
1996: Dal tramonto all’alba (From Dusk Till Dawn), regia di Robert Rodriguez – The Rock, regia di Michael Bay.
Interpretazioni (oltre a quelle dei suoi film)
1993: Eddie Presley, regia di Jeff Burr
1994: Qualcuno da amare (Somebody to Love), regia di Alexandre Rockwell – Il tuo amico nel mio letto (Sleep With Me), regia di Rory Kelly – The Coriolis Effect, regia di Louis Venosta (solo voce)
1995: Desperado, regia di Robert Rodriguez – Mister Destiny (Destiny Turn On the Radio), regia di Jack Baran
1996: Dal tramonto all’alba (From Dusk Till Dawn), regia di Robert Rodriguez Girl 6 – Sesso in linea (Girl 6), regia di Spike Lee
1998: God Said ‘Ha!, regia di Julia Sweeney
1999: Forever Hollywood, regia di Arnold Glassman
2000: Il diavolo a Manhattan (Little Nick), regia di Steven Brill
2004: Placet of the Pitts, regia di Rokki James Hollywood
2007: Sukiyaki Western: Django, regia di Takashi Miike
2008: Diary of the Dead, di Gorge A. Romero (solo voce)