Quando si parla dei film di Eric Rohmer, abbondano espressioni del tipo “cinema da camera”, “anacronismo d’artista”, “piccolo gioiello” e, da un po’ di tempo in qua, anche “irriducibile vegliardo”. Il fatto è che l’ex redattore capo dei “Cahiers du Cinèma” è sempre rimasto fedele a un’idea di cinema “puro” che affonda le proprie radici nella tradizione rosselliniana (la semplicità: un inquadratura trova giustificazione in se stessa e la si cambia solo quando è “necessario”), coniugata con quella hitchcockiana (la forma crea il contenuto) e sintetizzata intorno a una prospettiva estetica rigorosamente personale (la realtà dei personaggi si definisce interamente dentro alle coordinate spazio-temporali del linguaggio delle immagini).
Sembra ovvio, ma evidentemente non lo è. Tanto che film dopo film ci si continua a sorprendere (a ragione) della sua assoluta coerenza a se stesso e di come egli riesca a cogliere in modo moderno l’essenza della realtà umana, pur muovendo da apparati narrativi (sovente – come in questo caso – impregnati di letteratura) e da modalità recitative (rifiuto di ogni immedesimazione psicologica di tipo naturalistico) assolutamente lontane dalle mode del momento. Ed ecco che, a 87 anni, il “vegliardo” ci restituisce oggi. un altro capolavoro sotteso di una sua assoluta e impagabile freschezza giovanile. Dopo le divagazioni nella storia – dalla rivoluzione francese dello “sperimentale” La nobildonna e il duca, agli anni Trenta del “classico” Triple Agent – L’agente speciale – Rohmer torna ora ad affrontare direttamente il tema del rapporto amoroso, a lui da sempre molto caro. E lo fa in un modo culturalmente molto complesso, attraverso l’adattamento di un monumentale romanzo secentesco di Honoré d’Urfé (Astrée) che racconta le tribolazioni d’amore di due pastorelli ai tempi della dominazione romana della Gallia, da lui messo in scena con citazioni figurative dell’età barocca per parlare in modo assolutamente moderno delle relazioni tra anima e corpo, tra sentimento ed erotismo.
Girato nei giardini di un castello sulla Loira, Gli amori di Astrea e Celadon ha – come già la Marchesa von O. ( ma anche le serie dei Racconti morali o delle Commedie e proverbi) – l’andamento di un apologo etico-religioso, che si concretizza in un’opera percorsa di autentica leggiadria. Per non suscitare sospetti negli arricchiti genitori di lui, Astrea e Celadon vivono in segreto il proprio amore, lasciando che lui si nasconda dietro a una “donna schermo”. La malvagità del mondo però li divide. Astrea scaccia Celadon, dal quale si crede tradita. Lui si getta nel fiume e viene salvato da tre Ninfe. Lei si strugge per i sensi di colpa e lui fugge l’amore di Galatea per ergere un tempio all’amata Astrea, davanti alla quale si rifiuta di apparire per rispetto della sua scelta. Tocca a un sacerdote druido convincere Celadon a frequentare Astrea sotto mentite spoglie femminili.
E il gioco è fatto. Prigionieri delle loro anime, depositarie di principi e di valori assoluti, ai due amanti basta avvicinare i propri corpi per riconoscersi e fondersi l’una nelle braccia dell’altro. Quello di Rohmer è un film autenticamente e sanamente materialistico: un film erotico emozionante e perfetto, che riconcilia con il cinema e rasserena gli animi. Proprio come accadeva con gli ultimi grandi capolavori di Fritz Lang o di John Ford. Imperdibile. Da rivedere in lingua originale.
Gli amori di Astrea e Celadon
Les amours d’Astrée et de Céladon
(Spagna/Italia/Francia 2006)
Regia e Sceneggiatura: Eric Rohmer
Soggetto: dal romanzo Astrea di Honoré d’Urfé
Fotografia: Diane Baratier
Musica: Jean-Louis Valéro
Costumi: Pierre-Jean Larroque e Pu-Lai
Montaggio: Mary Stephen.
Interpreti: Andy Gillet (Céladon), Stéphanie de Crayencour (Astrea), Cécile Cassel (Léonide), Véronique Reymond (Galatea), Rosette (Sylvie), Jocelyn Quivrin (Lycidas), Mathilde Mosnier (Phillis), Rodolphe Pauly (Hylas), Serge Renko (Adamas), Arthur Dupont (Semyre), Marie Riviere (madre di Celadon), Olivier Blond, Alexandre Everest.
Distribuzione: Bim Distribuzione
Durata: un’ora e 49 minuti
(di Aldo Viganò)