Il regista di Sesso, bugie e videotape rende omaggio al cinema in bianco e nero: cosa che oggi regala automaticamente a ogni film un’aureola autoriale, quasi allo stesso modo che i buchi dei tarli garantiscono a un mobile l’apparenza dell’antichità. E proprio un operazione “d’antan” sembra essere stata al centro dell’interesse di Steven Soderbergh nel mettere in scena questo The Good German, di cui firma anche sotto duplice pseudonimo la fotografia e il montaggio.
Un film d’altri tempi, quindi, ambientato negli anni felici “in cui il nemico era quello che ti sparava addosso” e girato con compiaciuto riferimento al cinema degli anni Quaranta. Ma le ambizioni del regista caro ai cultori del nuovo cinema americano vanno ben oltre, tanto che constatare che The Good German è un film che inizia come Germania anno zero, prosegue strizzando l’occhio a Il terzo uomo e si conclude con la citazione di Casablanca, significa forse coglierne solo la forma esteriore. Soderbergh aspira a molto più che a un semplice omaggio al passato: cioè – per usare le sue stesse parole – egli intende servirsi di “una forma estetica del passato con la libertà espressiva contemporanea, onde poter parlare del presente rivolgendosi al passato”.
Ma che cosa c’è di moderno in questo thriller, ambientato a Berlino nei giorni della conferenza di pace di Potsdam e interpretato da attori guidati a riproporre modalità espressive di un divismo che non c’è più? In modo astuto e sornione, Soderbergh lavora più sulle sfumature profonde che sulla superficie narrativa: da una parte, spiazzando lo spettatore attraverso la moltiplicazione delle voci fuori campo che raccontano la vicenda (dapprima quella del “subdolo” autista Patrick Tully, poi quella del “romantico” capitano Geismer e infine quella della “dark lady” Lena Brandt) e, dall’altra, punteggiando il film di situazioni e ammiccamenti al contemporaneo che vanno dalla libera rappresentazione della violenza e del sesso ai parallelismi creati tra le disinteressate giustificazioni con cui Truman interviene alla conferenza di Potsdam e le parole con cui Bush motiva le attuali ingerenze americane in Afganistan o in Iraq.
Confezionando un film che ricalca le forme esteriori (fotografia, montaggio, scelta degli obiettivi e convenzioni narrative) del cinema classico hollywoodiano, Soderbergh intende cioè raccontare anche il processo di spaesamento, d’incertezza e di relativismo etico subentrato e affermatosi negli States (e nel mondo) nei decenni che hanno fatto seguito alla seconda guerra mondiale. Ambizione alta, certamente. Anche se poi, alla resa dei conti, accade che sullo schermo tutto questo resti relegato in prevalenza al piano delle buone intenzioni, perché – come sempre più sovente ormai gli accade – postosi dietro la cinepresa, Soderbergh si fa ben presto catturare dal proprio narcisismo estetico e, invece, di puntare diritto verso la direzione indicata, finisce con l’avvoltolarsi in modo compiaciuto e compiacente nelle belle immagini o nel gioco delle citazioni, sino a devitalizzare nella strizzata d’occhio “cinephilitica” un’operazione cinematografica che a più riprese induce invece a una ben più partecipata considerazione.
Intrigo a Berlino
(The Good German, U.S.A. 2006)
Regia: Steven Soderbergh
Soggetto: Joseph Kanon
Sceneggiatura: Paul Attanasio
Fotografia: Peter Andrews (Steven Soderbergh)
Musica: Thomas Newman
Scenografia: Doug J. Meerdink
Costumi: Louise Frogley
Montaggio: Mary Ann Bernard (Steven Soderbergh)
Interpreti: Jack Thompson (Breimer), John Roeder (generale), George Clooney (cap. Jacob “Jake” Geismer), Tobey Maguire (Patrick Tully), Cate Blanchett (Lena Brandt), Dominic Comperatore (Levi), Dave Power (ten. Schaeffer), Tony Curran (Danny).
Distribuzione: Warner Bros. Italia
Durata: un’ora e 45 minuti
(di Aldo Viganò)