C’è sempre qualcosa di anti-moderno nel cinema di Ermanno Olmi. Anche quando, come accade in questo Centochiodi, affronta temi di grande attualità (il rapporto tra fede e verità o tra religione e dottrina, tra vita ed erudizione), infatti, egli lo fa sempre con ritmi, tempi e angolazione di sguardo che nulla hanno a che fare con i modelli estetici del momento o con la primaria prospettiva della ricerca linguistica.
Questo, però, non fa di Olmi un classico, perché dei classici egli non partecipa né all’altezza di tono, né alla mitica visione del mondo, preferendo risolvere tutto il suo racconto sull’esile filo di un’interiorità ora dolente e ora favolistica. Eppure, Centochiodi ha un inizio molto suggestivo e certo da annoverare tra le cose migliori messe in scena da Ermanno Olmi. La luce del mondo esterno che contrasta con l’oscurità ordinata e silenziosa dell’atrio e dei corridoi dell’antica biblioteca bolognese. La quotidianità del giro di sorveglianza del custode rotta improvvisamente da un evento eccezionale a lungo negato allo sguardo dello spettatore. L’avvio dell’inchiesta giudiziaria fatta di immagini essenziali, che non si negano il sorriso sulla futilità del mondo (il preside che arriva con casco e motocicletta, non riconosciuto dalla polizia, che lo allontana).
La rivelazione, infine, del luogo del delitto con tutti quei libri inchiodati come Cristo sulla croce. E’ in queste immagini che Olmi dà l’impressione di aver trovato una freschezza narrativa troppo sovente assente dal suo cinema bonariamente pensoso, il quale torna però a imporsi con l’affermazione dell’assunto tematico che il regista-sceneggiatore decide di porre al centro del film. Vale a dire, una specie di Via Crucis alla rovescia che inizia con la crocifissione, prosegue con la svestizione del novello Messia, si dipana nel ritrovamento degli apostoli e nella predicazione della Verità; per concludersi, infine, nel ritorno della realtà in un buio senza Dio, ma forse rigenerato dal suo fuggevole passaggio. Nel raccontare tutto questo, Olmi privilegia uno stile insieme raffinato e naïf, ingenuo e sofisticato, che mescola con personale convinzione Rossellini e Tonino Guerra, Cesare Zavattini e Fellini, ma anche Tinto Brass e Pupi Avati. Uno stile fatto di sguardi dolci su un’umanità scoperta con il candore di una prima volta: sia questa umanità condensata nel volto di un contadino del delta del Po o nelle cosce liberate dallo svolazzare della gonna della panettiera che attraversa la campagna in motocicletta; uno stile ora documentaristico e ora lirico, capace di sortire – sul filo delle note di “Non ti scordar di me” – un film dolce e ideologico, insieme. Fatto di banalità del tipo che “tutti i libri del mondo non valgono un caffé bevuto con un amico”, ma anche di grida ideologiche contro le religioni dottrinali “che non hanno mai salvato nessuno”.
Abbandonata la storia (Il mestiere delle armi) e la favola orientaleggiante (Dietro i paraventi), Olmi sembra ritrovare lo sguardo innocente dei suoi primi film (Il posto, soprattutto) e conserva al suo cinema l’andamento di una parabola delle piccole cose, sottesa da una sincera predilezione per i “perdenti”, i “dimenticati”: per coloro che non sanno adeguarsi a questa civiltà dei libri e dei villaggi turistici.
Centochiodi
(Italia 2006)
Regia e sceneggiatura: Ermanno Olmi
Fotografia: Fabio Olmi
Musica: Fabio Vacchi
Scenografia: Giuseppe Pirrotta
Costumi: Maurizio Millenotti
Montaggio: Paolo Cottignola
Interpreti: Raz Degan (il professore), Luna Bendandi (la panettiera), Amina Syed, Michele Zattara, Damiano Scaini, Franco Andreani
Distribuzione: Mikado
Durata: un’ora e 32 minuti
(di Aldo Viganò)