Il cinema di Zhang Yimou trae la sua forza dalle contraddizioni che lo caratterizzano: da una parte, una vocazione estetizzante sino al limite del calligrafismo e, dall’altra, la tensione etica e sociale di un cinema costruito sul contrasto tra le rigide regole della società e la libertà individuale. Ancora: da una parte, il gusto fortemente letterario del racconto (quasi sempre mediato da un romanzo) e, dall’altra, la costante vocazione a disperderlo, questo gusto, nel primato della bella immagine fine a se stessa; da una parte, la denuncia dei residui feudali nella Cina contemporanea e, dall’altra, l’aristocratico compiacimento per la rappresentazione della ritualità più tradizionale; da una parte, la dichiarata, orgogliosa affermazione di una vocazione autoriale e, dall’altra, la volontà di radicarla sulle forme narrative ed estetiche del cinema di genere. E il gioco dei contrasti potrebbe continuare ancora a lungo, sino ad arrivare alla forma linguistica che più contraddistingue tutti i film di Zhang Yimou, consistente nella violenta giustapposizione dei primi piani e dei campi lunghi.
A ben vedere, è proprio questa serie di ostentate contraddizioni che tiene insieme una filmografia che tematicamente spazia molto liberamente nel tempo: dagli anni Venti e Trenta del Novecento dei suoi primi film (Sorgo rosso, Ju Dou, Lanterne rosse) all’antica mitologia imperiale degli ultimi (Hero e La foresta dei pugnali volanti), senza rinunciare ad affacciarsi alla contemporaneità: basti citare La storia di Qiu Ju o l’affresco storico di Vivere!. Ma che si avventura anche in numerose variazioni narrative e tonali: dalle ieratiche declinazioni della condizione della donna cinese che contraddistinguono la sua filmografia legata all’interpretazione di Gong Li, alle incursioni nel poliziesco (La triade di Shanghai) e nella commedia farsesca (Keep Cool) o ironica (La locanda della felicità), all’indulgenza nei confronti del didascalico di regime (Non uno di meno e La strada verso casa) e alla tarda adesione agli stilemi narrativi del wu xia pian (genere che sta al cinema cinese come il western a Hollywood) con l’intellettualistico Hero e con il melodrammatico La foresta dei pugnali volanti.
Avido sperimentatore di forme cinematografiche, Zhang Yimou guarda sempre al mondo da un punto di vista un po’ distaccato, venato a tratti di quell’atteggiamento aristocratico e anti-comunista che ai tempi della Rivoluzione Culturale fu rimproverato a lui e alla sua famiglia. E, mentre ciò ha probabilmente concorso a garantirgli un enorme successo (forse un poco spropositato) presso le giurie dei maggiori festival europei, lo ha anche portato a essere autore di una filmografia contraddistinta da opere che i cinéphiles considerano segnate da una sospettosa freddezza. L’elenco dei premi che hanno coronato Zhang Yimou in Occidente è davvero impressionante: Orso d’oro (Sorgo rosso) e poi d’argento (La strada verso casa) a Berlino; Leone d’argento (Lanterne rosse) e subito dopo due volte d’oro (La storia di Qiu Ju, Non uno di meno) a Venezia; Premio speciale della giuria a Cannes per Vivere!, con tutto il corollario di tante altre nomination comprese quelle all’Oscar. C’è stato un tempo in cui Yimou sembrava una presenza indispensabile per una rassegna d’arte cinematografica e il suo successo personale anche presso il pubblico delle sale cinematografiche ha indubbiamente concorso ad aprire le porte dell’Occidente a tutto il cinema orientale, portandosi dietro una ventata di sopravvalutazione che solo negli ultimi anni sta cominciando ad assestarsi in forme di giudizio più ponderate e motivate.
Visto così retrospettivamente, il cinema di Zhang Yimou inizia a rivelare meglio le proprie luci e le proprie ombre. E sia di queste, sia di quelle si può ormai discutere con una certa serenità, senza trovarsi più necessariamente di fronte l’immagine intimidatoria del monumento artistico. Ebbene, a cinquantacinque anni, con alle spalle quattordici film, mi sembra che Yimou sia un regista molto più interessante per quello che è, che per quello che vorrebbe essere. Mi spiego. Ogni suo film sembra ostentare una volontà di perfezione a volte oggettivamente un poco imbarazzante. Se affronta una storia classica (ad esempio, Lanterne rosse) lo fa nel modo che più classico non si può, sino al limite dell’accademismo. Se sceglie di rivolgere il proprio sguardo al quotidiano (La storia di Qiu Ju o Non meno di uno) lo fa rovesciando questa classicità ne suo contrario fatto di riprese con la camera in mano o di immagini figurativamente sciatte, quanto in questo loro essere ostentate. Se mette in scena un wu xia pian (cioè, un film di genere fantastico con grandi duelli aerei), come accade con la svolta del nuovo millennio, lo fa come se il genere dovesse trovare con lui un definitivo punto d’arrivo. Stucchevole e intellettualistico. Presuntuoso e sovente votato alla noia. Ma, per nostra fortuna, Zhang Yimou non è solo questo; ma è anche un regista che sa innamorarsi di quanto sta facendo, portando sino in fondo le proprie ossessioni: cioè, sino al punto di lasciarle vivere in modo autonomo, proprio nella loro esasperazione che non ha paura di mettersi in contraddizione con l’assunto stesso entro il quale queste ossessioni tendono a manifestarsi. Ed ecco, allora, le sequenze e le situazioni che rimangono più a mente dalla visione dei suoi film: lo stretto rapporto tra colore e pulsioni sessuali in Ju Dou; la ritualità scenografica, sino al limite della teatralità, di Lanterne rosse; l’ossessiva presenza del coro dei sacerdoti nel finale di Hero; l’affabulazione melodrammatica che sottende la ritualità iconografica di La foresta dei pugnali volanti. Troppo poco? Forse. Ma credo che sia proprio in scene e in situazioni come queste (ciascuno potrà aggiungerne con la memoria anche altre, a proprio piacimento) risieda il meglio dello sguardo cinematografico di un regista che aspira continuamente all’eternità, ponendo il proprio sguardo al di sopra della realtà rappresentata; ma, pur così facendo, sa anche consegnare al grande schermo momenti di autentica inquietudine estetica ed esistenziale. Con il risultato che sono proprio questi momenti che ci inducono ad attendere con rinnovata curiosità ogni suo nuovo film.
Chi è
Zhang Yimou nasce il 14 novembre 1950 a Xi’an, piccolo paese nel settentrione della Cina. Il padre è ufficiale dell’esercito e la madre è medico rurale. Legata al vecchio regime, la sua famiglia è emarginata e sospettata dal potere comunista. Dopo la Rivoluzione culturale che lo vede lavorare nelle campagne, Zhang s’iscrive al riaperto Istituto cinematografico di Pechino. E’ il 1978, Zhang ne esce diplomato in fotografia quattro anni dopo, in una Cina profondamente cambiata. Inviato a lavorare negli studi di Gianxi, nel sud del Paese, Zhang inizia a lavorare come operatore e direttore di fotografia al fianco di Zhang Junzhao (Uno e otto,1984), Chen Kaige (Terra gialla e La grande parata, 1985) e Wu Tianming (Vecchio pozzo, 1986, anche co-sceneggiatore e interprete). L’anno seguente, infine, Zhang debutta nella regia con Sorgo rosso ed è subito riconosciuto nei festival occidentali quale astro emergente del cinema cinese.
LA PAROLA A YIMOU
Non ho deciso di fare il regista perché amavo il cinema, ma perché sapevo che era una possibilità per migliorare il mio destino, un modo per uscire d una strada già tracciata.
I miei ricordi degli anni Sessanta sono pieni di paura. Poiché mio padre era considerato un controrivoluzionario, tutte le volte che la gente urlava slogan per strada ero terrorizzato, anche se non erano diretti contro di me.
La società cinese è cambiata così velocemente che la maggior parte delle persone si sentono perse. Il cinema cinese riflette questa evoluzione. Oggigiorno è l’economia di mercato che domina, tanto che la vita culturale è in frantumi. Ormai prevalgono i film commerciali più volgari. I registi che una volta si sarebbero vergognati di farli, oggi sono fieri di girarli.
Ciò che voglio mostrare sono le mentalità, i sogni, le idee della gente comune in questa fine di secolo nella quale la Cina, dopo scosse e tempeste, è in piena mutazione.
Nel 1997, la direzione del Teatro dell’Opera di Firenze mi ha proposto di dirigere Turandot. Io non conoscevo per niente l’opera, ma quando ho saputo che la pièce era ambientata nella Cina antica ho accettato subito. La realizzazione dello spettacolo a Firenze è andata così bene che mi hanno chiesto di portarla in Cina. LaTurandot è stata messa in scena in modo sfarzoso, per tutto il 1998, nella città proibita a Pechino.
Devo assolutamente restare in Cina. Qui è dove vivo, dove ogni cosa mi è familiare, dove ho fatto tutte le mie esperienze.
La gente cinese è troppo inibita; nella nostra società si può parlare soltanto di temi politici e sociali. La gente non è umana; la levatura dei cinesi è ancora minima. Essi indietreggiano invece di protendersi verso il futuro. Così abbiamo deciso di ridare vita ai sentimenti e ai rapporti tra le persone.
Nel fare arte, bisognerebbe sempre tenere presente la vita delle persone che vivono nella miseria. Qui ci sono i significati più profondi e le migliori fonti d’ispirazione artistica. Per molti anni, noi cinesi siamo vissuti nella miseria. E questo ci mette a disposizione infiniti soggetti. Spero proprio che prima d’invecchiare e sino a che la mia testa funziona io possa ancora raccontare tante belle storie.
Io sono un lettore appassionato di wu xia. Il primo romanzo wu xia l’ho letto negli anni Sessanta, ma allora c’era la Rivoluzione culturale noi non avevamo molte possibilità di leggere. Lo facevamo di nascosto e a turno, ma mi ricordo ancora molto bene il carattere dei personaggi, tanto che poi mi è rimasta sempre la voglia di fare un film wu xia.
Mi manca uno stile coerente.
Dichiarazioni di Zhang Yimou, tratte da sue interviste a vari giornali, in parte citate nella monografia di Fabrizio Colamartino e Marco Dalla Gassa, “Il cinema di Zhang Yimou”, edizioni Le Mani.
Filmografia
1987: Sorgo rosso (Hong gao liang)
1989: Nome in codice: “Operazione Puma” (Daihao meizhoubao), coregia Yang Fengliang
1990: Ju Dou (Ju Dou), coregia Yang Fengliang
1991: Lanterne rosse (Da hong deng long gao gao gua)
1992: La storia di Qiu Ju (Qiu Ju da guan si)
1994: Vivere (Huozhe), coregia Wang Bin e Zhang Xleochun
1995: La triade di Shanghai (Yao a yao yao dao waipo qiao) – Lumière et compagnie di Sarah Moon, Zhang Yimou gira un episodio
1997: Keep Cool (You hua hao hao shuo)
1999: Non uno di meno (Yi ge dou bu neng shao) – La strada verso casa (Wo de fu qin mu qin)
2001: la locanda della felicità (Xingfu shiguang)
2002: Hero (Ying xiong)
2003: La foresta dei pugnali volanti.