Film dopo film, Claude Chabrol coniuga sul grande schermo una sua forte idea di cinema, costruita sull’assoluto primato della forma alla quale, sola, viene deputato il compito di determinare e definire il racconto. Forma, non formalismo; nulla a che fare con il compiacimento calligrafico, cioè. Come nel cinema del sempre più amato Fritz Lang.
Quello americano, ovviamente. Quello della rigorosa costruzione narrativa e della definizione di personaggi complessi dentro l’apparente semplicità dei “generi”. Soprattutto, quello dei film in cui tutto il reale è contenuto nei loro fotogrammi e la cui realtà coincide interamente con il loro stile. Chi ha voluto vedere in La commedia del potere soprattutto una realtà esterna al cinema è rimasto deluso. Ma come, è questo il modo di raccontare la tangentopoli francese? Senza separare il bene dal male e mettendo sullo stesso piano i colpevoli e chi indaga sulla loro colpa, gli inquisiti e gli inquisitori? Inevitabilmente, qualcuno è giunto anche a parlare di cinismo o di qualunquismo.
Certo, il film non è fatto per lo spettatore che chiede al cinema di cambiare il mondo. Il cinema di Chabrol costruisce la realtà: non ha nulla a che fare né con l’illustrazione, né con la denuncia o la propaganda. Anche quando, come in questo caso, affronta un fatto di cronaca, un “fait divers”: nel caso specifico, lo scandalo Elf-Aquitaine. I temi al centro di L’ivresse du pouvoir sono proprio l’”ivresse” e il “pouvoir”: cioè, quello stato di ebbrezza, di inquietante separazione dal senso della vita, che accompagna – sovente in modo inconsapevole – la gestione del potere.
Per i notabili della Nazione (la classe dominante e vincente), il potere è qualcosa che si esercita intorno a una tavola imbandita e con un bicchiere in mano; è un esercizio astratto, da setta segreta, essenzialmente fine a se stesso. Per l’imprenditore inquisito, è una malattia i cui sintomi si manifestano con l’arrivo della polizia (il prurito che sempre più lo tormenta) e creano pericolose e distruttive metastasi. Per il pubblico ministero, il potere agisce come una droga insinuante e sottile, che porta sempre più vicino alla verità, ma anche sempre più lontano dalla vita, dagli altri, dal suo stesso marito che lentamente precipita nella depressione. E per Chabrol che cosa è il potere? Da entomologo con la macchina da presa, egli ne fa l’oggetto della propria indagine apparentemente asettica e, da regista creatore di un autonomo universo estetico, lo definisce in un paio di guanti rossi, nella durata di un primo piano, in un movimento di macchina o in un raccordo di montaggio, in una sfumatura della recitazione della Huppert, come in quelle di tutti gli altri attori splendidamente diretti.
Concedendosi il lusso di far intravedere un’alternativa possibile, ma non esaustiva, del potere nell’attonito e irresponsabile individualismo di Fili, la cui visione del mondo sembra infine trionfare. Solo, però, per lasciar spazio a un futuro in cui, forse non il giudice Charmant, ma sicuramente Chabrol continuerà, comunque, a occuparsi degli affari degli altri, delle contraddizioni degli esseri umani: a fare del cinema in cui le sfumature contano più delle apparenze e, come suggeriva Fritz Lang, solo lo stile può concorrere alla definizione della vita.
La commedia del potere
(L’ivresse du pouvoir, Francia 2006)
Regia: Claude Chabrol
Soggetto e sceneggiatura: Odile Barski e Claude Chabrol
Fotografia: Eduardo Serra
Musica: Matthieu Chabrol
Montaggio: Monique Fardouils
Interpreti: Isabelle Huppert (Jeanne Charmant), François Berléand (Michel Humeau), Patrick Bruel (Jacques Sibaud), Robin Renucci (Philippe Charmant), Marilyne Canto (Erika), Thomas Chabrol (Félix), Jean-François Balmer (Boldi), Pierre Vernier (presidente Martino), Jacques Boudet (Descarts), Philippe Duclos (Jean-Baptiste Holéo)
Distribuzione: Bim
Durata: 110 minuti
(di Aldo Viganò)