Con Flags of Our Fathers, Clint Eastwood prosegue il discorso sul rapporto tra la vita e la morte, sull’amicizia e l’amore come uniche alternative al dolente divenire dell’esistenza umana, che attraversa con autoriale originalità il suo cinema più recente: da Un mondo perfetto a Million Dollar Baby.
E, ancora una volta, la struttura narrativa dominante è quella del melodramma, con la prospettiva del presente scelta per riscoprire il passato, lasciando che le due dimensioni temporali continuamente s’intreccino, sino a diventare inestricabili. Come in I ponti di Madison County, anche qui il punto di partenza narrativo è un reperto “post mortem”, anzi due perché il racconto prende le mosse dal libro con cui il figlio ricostruisce la biografia di uno dei tre soldati sopravvissuti tra i sei immortalati dall’obiettivo di Joe Rosenthal nella celebre fotografia scattata il 23 febbraio sul monte Suribachi a Iwo Jima.
Ed è proprio concentrando lo sguardo su questa immagine “patriottica” che Eastwood apre un film dolente e complesso, che nei suoi momenti migliori (tutte le scene d’azione) raggiunge con modalità moderne l’altezza di tono del grande cinema classico, mentre in quelli meno risolti (in generale, le sequenze riguardanti la tournée degli “eroi”) sembra rinviare ora alla sfilata finale di Mystic River e ora al dolore sepolcrale delle ultime sequenze di Million Dollar Baby. Riferimenti, questi, scelti per sottolineare come anche nel suo peggio Flags of Our Fathers sia sempre un film ad alto livello, un’oasi felice nell’approssimazione troppo sovente esibita dal cinema contemporaneo.
Ma, si sa, soprattutto agli artisti veri si richiedono opere riuscite in ogni loro componente, mentre qui non tutto risulta sempre allo stesso livello, anche se lo squilibrio è dato forse più dall’altezza della sua parte migliore che dalla piccolezza di quelle che meno convincono. Si osservano tutte le scene dello sbarco a Iwo Jima: epiche e sintetiche insieme, minacciosamente intervallate dalla dapprima silenziosa e poi urlante entrata in scena delle bocche da fuoco, sempre punteggiate dallo sguardo ferito con cui la cinepresa di Eastwood si sofferma sulla rappresentazione dei corpi feriti.
Qui il regista sortisce il meglio del suo cinema e conferma che nessuno meglio di lui sa oggi cogliere nell’ atto estremo della morte il senso più tragico e autentico della vita umana. Quando però dalla rappresentazione dei corpi, del loro strazio e della loro energia, il film passa alla definizione dei personaggi, qualcosa non funziona più allo stesso livello. Strano per un regista umanista come Eastwood, che proprio sui personaggi ha quasi sempre costruito i suoi film migliori. Ma forse la difficoltà nasce solo dal fatto che al suo cinema essenzialmente mitico mal s’addice la cronaca: soprattutto quella riguardante gli eroi nazionali, con i suoi troppi vincoli ideologici e operativi, in una società in cui la retorica fa aggio anche sulla leggenda.
Tanto che è legittimo pensare che l’annunciata altra faccia del suo film sullo sbarco a Iwo Jima, quella raccontata dal punto di vista dei giapponesi (Letters from Iwo Jima come I persiani di Eschilo?), potrà evidenziare in modo più libero e compiuto il vero talento dell’ultimo classico del cinema hollywoodiano.
Flags of Our Fathers
(id, USA 2006)
Regia: Clint Eastwood
Sceneggiatura: William Broyles jr. e Paul Haggis
Fotografia: Tom Stern
Musica: Clint Eastwood
Montaggio: Joel Cox
Interpreti: Ryan Philippe (John Bradley), Adam Beach (Ira Hayes), Jesse Bradford (Rene Gagnon), Jamie Bell (Ralph Ignatowski), Joseph Cross (Franklin Sousley), Neal McDonough (cap. Severance), Paul Walker (Hank Hansen), Barry Pepper (serg. Mike Strank), Jason Gray-Stanford (ten. Harold Schrier), Matt Huffman (ten. J.K. Wells), Robert Patrick (col. Chandler Johnson)
Distribuzione: Warner Bros
Durata: 130 minuti
(di Aldo Viganò)