Chi ha letto il romanzo di James Ellroy tende a sottolineare come il film di De Palma non ne rispetti la forma e ne tradisca sovente il contenuto; chi non ha altro punto di riferimento tematico che le immagini e i suoni che scorrono sullo schermo ha non poche difficoltà a orientarsi all’interno di una vicenda dagli sviluppi labirintici e dalle soluzioni narrative sovente ermetiche.
The Black Dahlia è un film che travolge lo spettatore con la ricchezza delle sue immagini e la complessità dei suoi esiti figurativi, ma è anche un’opera per molti versi sbagliata che rinsalda il giudizio di chi è ancora oggi in attesa della piena conferma di quel talento autoriale che Brian De Palma indubbiamente possiede, ma al quale stenta a trovare il modo di dare forma compiuta. Come molti registi formatisi negli anni Settanta, quando la definitiva decadenza del sistema degli Studios hollywoodiani aprì anche negli States la messa in discussione del cinema classico, De Palma dimostra ancora una volta di essere autore portato a innamorarsi della costruzione formale delle immagini più che a vedere in queste lo strumento linguistico per definire e comprendere il mondo.
C’è in The Black Dahlia, come nella maggior parte dei suoi film, una vocazione barocca che, per poter diventare compiutamente stile, denuncia con forza il bisogno di saldi argini quali quelli rappresentati da una sceneggiatura rigorosa e dalla presenza di attori capaci solo con la loro presenza di definire un personaggio. Quando ciò gli viene dato (o imposto) – come, ad esempio, in Carlito’s Way o in Gli intoccabili – De Palma ha dimostrato di saperne sortire film coinvolgenti, personali, autenticamente innovatori. Ma questa volta qualcosa non ha funzionato, come se gli argini fossero stati mal definiti o che almeno siano crollati in corso d’opera, annegando lo spettatore nel rutilante splendore di un formalismo fine a se stesso.
La sceneggiatura di The Black Dahlia accumula temi, divaga in citazioni, scarta improvvisamente da un genere all’altro, ma sembra priva di una precisa bussola narrativa che permetta allo spettatore di orientarsi tra un ring di pugilato e una stazione di polizia, tra una storia di amicizia e l’arroganza della società, tra il set di un film porno e l’inchiesta sul ritrovamento di un cadavere orrendamente squartato. Non è, ovviamente, questione di trama. Questa in qualche modo si capisce anche senza aver letto il romanzo di Ellroy. Il problema di fondo attiene al disinteresse per la costruzione del senso attraverso la specificità di un linguaggio dei suoni e delle immagini in movimento.
Ma anche, in fin dei conti, alla recitazione degli attori che, non avendo di per sé una grande personalità (fatta forse eccezione per Hillary Swank), sono lasciati troppo soli e stentano, in questo contesto formalista, ad apportare qualcosa di autenticamente costruttivo ai personaggi e allo sviluppo del racconto, correndo infine l’evidente rischio di diventare solo un elemento in più di quel decorativismo verso cui vanno, pur ad alta funzionalità tecnica, anche la fotografia di Vilmos Zsigmond e la scenografia di Dante Ferretti, le quali splendidamente concorrono a fare di The Black Dahlia un film molto ricco, ma in fin dei conti deludente.
The Black Dahlia
(id., USA, 2006)
Regia: Brian De Palma
Sceneggiatura: Josh Friedman, dal romanzo di James Ellroy
Fotografia: Vilmos Zsigmond
Scenografia: Dante Ferretti
Costumi: Jenny Beavan
Musica: Mark Isham
Montaggio: Bill Pankow
Interpreti: Josh Hartnett (Bucky Bleichert), Scarlett Johansson (Kay Lake), Aaron Eckhart (Lee Blanchard), Hillary Swank (Madeleine Linscott), Mia Kirshner (Elisabeth Short), Fiona Shaw (Ramona Linscott), Mike Starr (Russ Millard)
Distribuzione: 01
Durata: 121 minuti
(di Aldo Viganò)