La damigella d’onore

Con il trascorrere del tempo, al ritmo oggi sapientemente cadenzato di due film ogni tre anni, Claude Chabrol tende sempre più ad avvalorare la massima che da decenni guida la sua attività di regista: “Nel cinema è la forma che crea il contenuto”. Anche La damigella d’onore, che giunge sugli schermi italiani mentre in Francia sta già per uscire il successivo La comedie du pouvoir, torna puntualmente a ribadirlo.

Tratto dall’omonimo romanzo di Ruth Rendell (la stessa di Il buio nella mente), il cinquantaquattresimo lungometraggio realizzato dall’ormai settantacinquenne padre della “Nouvelle Vague” racconta con occhio spietatamente oggettivo una storia di straordinaria follia. Un giovane agente immobiliare, che abita ancora con la mamma parrucchiera e le due sorelle, accetta di malgrado il nuovo legame sentimentale della genitrice con un maturo uomo d’affari.

Normale gelosia figliale o patologia edipica? Maestro nel raccontare l’ambiguità del reale, Chabrol lascia continuamente sospeso l’interrogativo, mentre lo intreccia con la vicenda amorosa che nasce tra il giovanotto e la damigella d’onore al matrimonio della sorella maggiore. Tra sinuose carrellate laterali e bruschi tagli di montaggio, la vicenda tende ad assumere connotazioni sempre più complesse, pur nell’apparente semplicità dell’assunto narrativo.

Perché il giovanotto ama addormentarsi tenendo tra le braccia la statua di marmo che la madre donò all’amante e che lui rubò dal suo giardino? Perché quei suoi risvegli improvvisi l’alba seguente le notti trascorse con la sua bella damigella? Sogno o realtà? E’ lui il pazzo oppure la vera folle è la sua dolce compagna che gli offre come prova d’amore l’omicidio dell’amante della madre, sbagliandosi però di persona? Lentamente, ma in modo inesorabile, Chabrol cattura lo spettatore in una complessa rete di forme cinematografiche tanto realisticamente concrete, quanto sospese in un significato sempre aperto e mai univoco.

E i personaggi si moltiplicano, pur se sovente appena accennati: il saggio clochard che vive in un cespuglio del giardino della damigella d’onore, la madre di questa che trascorre le sue giornate ad allenarsi per una gara di tango, le vecchie clienti e il sempre affamato titolare dell’agenzia immobiliare, la ristoratrice italiana e lo stralunato agente di polizia, la sorellina cleptomane e il cognato infoiato.

A ben vedere, tutti potrebbero avere il loro cadavere nell’armadio, come infine si scopre per il personaggio che dà il titolo al film. Grande narratore di storie, Chabrol ama appoggiare i propri film su trame desunte dal “noir”, ma molto più che sulle strutture narrative del genere ama appoggiarsi sulle variazioni delle sue forme.

Come l’amato Hitchcock, ma con la geometrica perfezione del sempre imitato Fritz Lang. E ancora una volta il suo nuovo film affascina e coinvolge, facendo in questo caso sorvolare anche sull’inadeguatezza interpretativa della sua giovane protagonista, cui non basta certo essere la figlia di Johnny Hallyday e Nathalie Baye.

La damigella d’onore
(La demoiselle d’honneur – Francia, 2004)
Regia: Claude Chabrol
Sceneggiatura: Pierre Leccia e Claude Chabrol, dal romanzo omonimo di Ruth Rendell
Fotografia: Eduardo Serra
Musica: Matthieu Chabrol
Scenografia: Françoise Benoit-Fresco
Costumi: Mic Cheminal
Montaggio: Monique Fardoulis
Interpreti: Benoit Maginel (Philippe), Laura Smet (Senta), Aurore Clement (Christine), Bernard Le Coq (Gérard Courtois), Michel Duchaussoy (il clochard), Suzanne Flon (madame Crespin), Solene Bouton (Sophie Tardieu), Anna Mihalcea (Patricia Tardieu), Eric Seigne (Jacky), Philippe Duclos (cap. Dutreix), Thomas Chabrol (José Laval), Pierre-François Dumeniaud (Nadeau)
Distribuzione: Bim
Durata: 111 minuti

(di Aldo Viganò)

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