Passata l’ubriacatura degli anni Settanta quando si voleva vedere in Sydney Pollack un innovatore, si è ormai tutti (o quasi) d’accordo nel considerarlo soprattutto un solido “metteur en scène”, capace di raccontare con onesta diligenza una storia e di valorizzare la recitazione dei suoi attori: senza guizzi autoriali, ma con tanta professionalità.
Responsabile di film comunque sempre degni della migliore tradizione del cinema medio hollywoodiano, Sydney Pollack è estraneo all’attuale gusto per gli spettacolari effetti speciali come alla prospettiva della costruzione formale della realtà. E’, insomma, quello che una volta si sarebbe detto un “onesto artigiano”, ma che oggi appare soprattutto una garanzia per l’adeguata valorizzazione delle risorse di una sceneggiatura o delle qualità artistiche e tecniche messe a sua disposizione. Una volta, forse, non sarebbe valso prestare considerazione critica alla sua opera, ma oggi ogni suo nuovo film rappresenta un patrimonio da non sottovalutare: chiarezza espositiva, buon ritmo, cinepresa al servizio degli attori e della comprensibilità della storia raccontata.
Tutte doti, queste, che puntualmente si ritrovano in The interpreter, il cui nodo narrativo è dato dall’annuncio di un attentato ascoltato per caso nella grande sala dell’ONU dall’interprete di una rara lingua africana, mentre lo sviluppo drammatico viene giocato su due piani: da una parte, l’inchiesta avviata dai servizi di sicurezza per prevenire ogni possibile incidente e, dall’altra, la nobile condanna di ogni forma politica di colonialismo o di stato dittatoriale.
Temi questi che trovano la propria sintesi nella splendida presenza e nella sempre ottima recitazione di Nicole Kidman, ma che si diramano poi anche attraverso il sapiente gioco attoriale di Sean Penn e il flusso (a lungo andare un po’ stucchevole) dei colpi di scena. Quello che ne sortisce è uno spettacolo “bien fait”, che non tradisce mai chi al cinema va per il piacere di sentirsi raccontare una storia che in qualche modo possa essere accolta anche come un rispecchiamento della realtà, un chiaro e didascalico punto vista sul mondo contemporaneo.
Tutto qua: la forma al servizio del contenuto, e questo che coincide completamente con l’assunto narrativo. In fin dei conti, si esce soddisfatti dal cinema in cui si è visto The interpreter. Ma anche con un certo retrogusto amaro per quello che il film poteva (e forse voleva) essere, riuscendo però solo accennarlo in poche sequenze, senza saperne fare il proprio vero centro drammaturgico. Intendo far riferimento a quel senso di lutto che i due protagonisti del film si portano sempre addosso (per la recente morte dei rispettivi compagni di vita); ma che, invece di diventare immagine interiore di un più ampio lutto storico e sociale (il crollo dei valori morali e la comune colpevolezza di buoni e di cattivi), si accontenta di essere solo un loro connotato privato e di diventare una nuova occasione per Pollack di sdolcinare il racconto con qualche zoom in avanti sui bei volti silenziosi della Kidman e di Sean Penn.
The Interpreter
(USA, 2005)
regia: Sydney Pollack
Soggetto: Martin Stelmann e Brian Ward
Sceneggiatura: Charles Randolph, Scott Frank, Steven Zaillian
Fotografia: Darius Khondij
Musica: James Newton Howard
Scenografia: Jon Hutman
Costumi: Sarah Edwards
Montaggio: William Steinkamp
Interpreti: Nicole Kidman (Silvia Broome), Sean Penn (Tobin Keller), Catherine Keener (Dot Woods), Jesper Christensen (Nils Lud), Yvan Attal (Philippe), Earl Cameron (Zuwanie), George Harris (Kuman-Kuman), Michael Wright (Marcus), Clyde Kusatsu (Lee Wu), Eric Keenleyside (Rory Robb), Hugo Speer (Simon Broome), Maz Jobrani (Mo), Sydney Pollack (Jay Pettigrew).
Distribuzione: Eagle
Durata: 128 minuti
(di Aldo Viganò)