Molto più ambizioso del film d’esordio (L’uomo in più) ambientato tra il mondo del calcio e quello delle discoteche, Le conseguenze dell’amore conferma pregi e limiti di un regista, Paolo Sorrentino, che è tra i pochissimi, del variegato panorama del cosiddetto nuovo cinema italiano, dai quali è legittimo attendersi un giorno la realizzazione di un’opera cinematografica esteticamente compiuta, capace di sintetizzare in uno stile personale tutte le sue componenti narrative, artistiche e attoriali.
Per ora, però, ci si deve accontentare di quello che c’è. Che non è poco, come ben dimostra la prima parte del film; ma è anche troppo poco, come testimonia tutto quanto accade sullo schermo dal momento in cui il racconto passa dalle atmosfere all’azione. Ambientato nel clima astratto di un hotel del Canton Ticino, dove il massimo del divertimento sembra essere quello di barare a carte giocando ad asso pigliatutto, il film si definisce per il ritmo mesto e un po’ luttuoso del suo divenire narrativo.
Come il protagonista di un film di Jean-Pierre Melville (il ricordo va soprattutto a Frank Costello faccia d’angelo), Titta Di Giacomo è un manovale del crimine che porta dentro di sé una ferita esistenziale, tale da renderlo insieme misterioso, affascinante e solitario. Il suo mestiere è quello di riciclare il denaro sporco che una donna lascia periodicamente davanti alla sua porta chiuso in una valigia; la sua malattia quella d’innamorarsi di una barista che potrebbe essere sua figlia; il suo peccato quello di amare il gioco d’azzardo, sino al punto di derubare sfacciatamente gli impiegati di una banca svizzera per regalare una bmw alla ragazza di cui si è invaghito o di pensare di poter tenere per sé una valigia di denaro sottrattagli da mafiosi deviati, recuperta nel sangue e nascosta nel sogno di un impossibile riciclaggio della propria vita.
Anche, forse soprattutto, per merito della sapiente intepretazione “understatment” di Toni Servillo, la prima parte del film ha molti motivi d’interesse: lontano dallo sciatto realismo televisivo come dal facile didascalismo narrativo di troppo cinema italiano; capace di procedere per sintesi nella rappresentazione di un ambiente, di una psicologia, di un rapporto tra esseri umani. Quello di Paolo Sorrentino sembra essere un cinema che predilige il non detto e che si colloca tutto ai margini dell’azione: e in queste direzioni riserva momenti cinematograficamente molto interessanti, a volte anche illuminati da uno sguardo autenticamente personale.
Ma, allora, perché disperdere questo piccolo patrimonio stilistico in una seconda parte narrativamente farraginosa, che porta sullo schermo personaggi banalmente qualunque (tutti gli uomini della mafia) e che naufraga nella banalità di inquadrature tipo quelle del corpo sospeso alla gru e lasciato lentamente calare nella calce viva? Non è questione di cosa si racconta, ma di come lo si fa. Possibile che il Sorrentino che ha girato la prima ora del film, non si sia reso conto del vuoto che contraddistingue i suoi ultimi quaranta minuti? Difficile crederlo.
E allora viene il sospetto che il problema sia più grande e abbia a che fare con la difficoltà di gestire la pur perseguita natura drammaturgica del cinema. Come del resto ben testimonia qui anche l’impaccio di Sorrentino a gestire la storia d’amore, le cui “conseguenze” dovrebbero essere, ma non sono, il centro intorno al quale il film costruisce il suo divenire narrativo.
LE CONSEGUENZE DELL’AMORE
(Italia, 2004)
Regia, soggetto e sceneggiatura: Paolo Sorrentino
Fotografia: Luca Bigazzi
Musica: Pasquale Catalano
Scenografia: Lino Fiorito
Costumi: Ortensia De Francesco
Montaggio: Giorgio Franchini
Interpreti: Toni Servillo (Titta Di Girolamo), Olivia Magnani (Sofia), Adriano Giannini (Valerio), Raffaele Pisu (Carlo), Angela Goodwin (Isabella), Diego Ribon (il direttore), Giselda Volodi (cameriera), Ana Valeria Dini (ragazza che legge), Gianna Paola Scaffidi (Giulia), Antonio Ballerio (dirigente di banca), Gilberto Idonea (killer), Gaetano Bruno (ltro killer), Enzo Vitagliano (Pippo D’Antò)
Distribuzione: Medusa / Fandango
Durata: un’ora e 40 minuti
(di Aldo Viganò)