Pas sur la bouche

A ottant’anni, Alain Resnais (classe 1922) ha scoperto una nuova giovinezza, lontana dalla dimensione pensosa e non poco intellettualistica dei suoi trenta-quarant’anni, ma ugualmente sottesa dal piacere di fare del cinema. A ben vedere, anche il tema centrare dei suoi film è rimasto fondamentalmente lo stesso: la memoria.

Solo che, mentre in Hiroshima mon amour o in L’anno scorso a Marienbad o in Muriel, il regista appariva soprattutto preoccupato di interrogarsi su un’idea, su che cosa mai fosse la memoria e quali fossero i suoi meccanismi di funzionamento, in On connait la chanson (Parole, parole, parole…, 1997) e in Pas sur la bouche (che ufficialmente non ha ancora una data d’uscita in Italia, ma che i cinéphiles sperano di vedere al più presto), Resnais mette in scena direttamente i contenuti della “propria” memoria, elevandola a specchio consapevolmente deformato della realtà: così come essa è o vorrebbe che fosse.

E al cinema, si sa, quando la memoria diventa l’asse portante del discorso, questo tende a incanalarsi inevitabilmente dentro l’alveo drammaturgico dei “generi”, tra i quali Resnais sembra prediligere soprattutto il musical. Probabilmente proprio per quella naturale astrazione che caratterizza il “genere” e che ben si salda con la più spiccata tensione autoriale, sempre sottesa da una gioiosa ansia di sperimentazione, di tutto il suo cinema precedente.

Ma Resnais non è regista disposto ad acquietarsi in una formula stilistica o narrativa (pur di successo); ed ecco che, mentre On connait pas la chanson era un musical in play-back, con i personaggi che vivevano attraverso il corpo degli attori e la voce di celebri cantanti del passato, Pas sur la bouche rompe con questa dicotomia e si presenta compiutamente come la messa in scena “in presa diretta” di un’operetta d’antan, con gli attori che parlano e cantano con la propria voce. Sul lavoro (1925) di André Barde (librettista) e di Maurice Yvain (autore delle musiche) ha già ben scritto su queste pagine (cfr. Film D.O.C. n° 57) Alessandro Tinterri, così come sulla sua fortuna cinematografica e sul suo intreccio narrativo.

Ciò mi esime dal ritornare in dettaglio sulla trama, che comunque è cosa marginale nel film, con il suo rinvio alle più tradizionali strutture del teatro boulevardier: ambientazione alto borghese, intrecci amorosi, paura delle corna, equivoci e malintesi, salotti buoni e garçonniere, ecc. A Resnais (la sua filmografia e la visione di Pas sur la bouche lo testimoniano con chiarezza) interessa sempre più la forma del contenuto.

O meglio, il film e tutta l’opera del regista francese sono lì a dimostrare ancora una volta come al cinema, quello vero, sia sempre la forma a dar concretezza estetica ai contenuti. E Pas sur la bouche è un film dalle forme fluide e composte, anche se forse un po’ retrò per i suoi ritmi lenti più ancora che per la sua datazione negli anni Venti.

Scorre gioioso sullo schermo, consegnando infine allo spettatore il divertito e divertente caleidoscopio di un’umanità che forse non c’è più, ma che ci piace rincontrare sullo schermo attraverso la recitazione ironica (mai parodistica, però) dei due attori prediletti dall’ultimo Resnais (Sabine Azéma e Pierre Arditi), ben affiancati dall’ottima Isabelle Nanty, dal finto impacciato Lambert Wilson, dallo scatenato Darry Cowl en travestì e dalla lunare Audrey Tautou.

PAS SUR LA BOUCHE
(Francia, 2003)
Regia e sceneggiatura: Alain Resnais
Soggetto: dall’omonima operetta di André Barde
Fotografia: Renato Berta
Musica: Maurice Yvain
Scenografia: Jean-Michel Ducourty
Costumi: Jackie Budin
Montaggio: Hervé de Luze
Durata: 115 minuti

(di Aldo Viganò)
Interpreti: Sabine Azéma (Gilberte Valandray), Isabelle Nanty (Arlette Poumaillac), Audrey Tautou (Huguette Verberie), Pierre Arditi (Georges Valndray), Jalil Lespert (Charley), Daniel Prévost (Faradel), Darry Cowl (madame Foin), Lambert Wilson (Eric Thomson).
Durata: un’ora e 55 minuti

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