Più che il regista François Depeyron, onesto cinquantenne del cinema francese con all’attivo una dozzina di film che difficilmente hanno varcato le Alpi, quelli che contano qui sono il soggettista-sceneggiatore Eric-Emmanuel Schmitt e il protagonista Omar Sharif. È infatti per amore del personaggio offertogli da Schmitt che Sharif ha deciso di ritornare sul grande schermo dopo molti anni d’assenza, confermandosi attore dalle limitate qualità, ma dalla sicura presenza cinematografica; ed è per merito soprattutto di Schmitt che il film garantisce un immediato “feeling” emotivo e culturale con un pubblico “perbene” (qualcuno preferisce dire “politicaly correct”).
Del resto, non solo in Francia, ma anche sui palcoscenici di tutto il mondo, il nome di Schmitt significa garanzia di spunti narrativi ingegnosamente alla moda, di scrittura agile e scorrevole, di dialoghi che ben s’addicono a valorizzare le virtù recitative degli interpreti. Così è nelle sue commedie più note e frequentate (Il visitatore o Variazioni enigmatiche, per citare solo due titoli rappresentati anche sui palcoscenici genovesi) e così si conferma essere anche in questa sceneggiatura, tratta da un suo omonimo e fortunato romanzo.
Che cosa c’è di più “perbene” ed eticamente consolante del dialogo tra un vecchio mussulmano poco ortodosso e un giovane ebreo, sullo sfondo di una Parigi anni Sessanta in cui dominano i buoni sentimenti? E che cosa si può pensare di più confortante di un lungo viaggio iniziatico, in cui le assonanze sentimentali ben s’intrecciano con con la reciproca accettazione umana e culturale, anche nelle differenze? Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano dà allo spettatore quello che desidera: ma per fortuna non solo questo.
Perché Schmitt è scrittore didascalico, ma certo non sprovveduto, capace come è di dar vita ad ambienti e a personaggi, di rispettare l’umanità di ciascuno e di strutturare un racconto “bien fait”. E qui rientra in ballo anche il regista Depeyron, il quale sollecitato dalla bella scrittura offertagli e dall’ambientazione anni Sessanta dell’incontro tra il droghiere Ibrahim, seguace della religione “sufi”, e il sedicenne Momo, abbandonato dalla madre e tradito dal padre suicida, impagina (soprattutto nella prima parte) un film veloce e scorrevole, illuminato da un simpatico gusto per la rivisitazione del cinema Nouvelle Vague, con molte reminescenze di Truffaut.
Accade, allora, che le cose migliori del film si ritrovano non tanto nel convenzionale rapporto pedagogico tra i due protagonisti, quanto nella descrizione un po’ favolistica di quella strada popolata di prostitute dal buon cuore, con le quali Momo conosce i piaceri del sesso prima ancora dei fremiti amorosi, che saranno suscitati in lui da una coetanea vicina di casa. Strada a cui si accede da una bella scalinata tipicamente francese e dove un bel giorno tutto si ferma per assistere alle riprese di un film, nel quale una procace star (“cameo” di Isabelle Adjani) sale su una spider rossa, traducendo la realtà quotidiana in fantasia: come in un film di Jean-Luc Godard.
MONSIEUR IBRAHIM E I FIORI DEL CORANO
(Francia, 2003)
Regia: François Dupeyron
Sceneggiatura: François Dupeyron e Eric-Emmanuel Schmitt, dal romanzo omonimo di Schmitt
Fotografia: Rémy Chevrin
Scenografia: Katia Wyszkop
Costumi: Catherine Bouchard
Interpreti: Omar Sharif (Monsieur Ibrahim), Pierre Boulanger (Momo), Gilbert Melki (il padre di Momo), Isabelle Renauld (la madre di Momo), Lola Naymark (Myriam), Anne Suarez (Sylvie), Mata Gabin (Fatou), Céline Samie (Eva), Isabelle Adjani (la Star).
Distribuzione: Lucky Red
Durata: un’ora e 34 minuti
(di Aldo Viganò)